Meno siamo, meglio stiamo? Un esempio di “mentalità contraccetiva”

di Emanuele Cirillo

 

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ROMA, giovedì, 13 novembre 2008 (ZENIT.org).- Talvolta il dibattito sulla popolazione e le risorse del pianeta viene ridotto ad una disputa tra malthusiani ed antimalthusiani. Eppure negli anni, questa problematica ha sollevato una serie di spunti spesso poco valutati e che attualmente assumono interessanti possibilità di rilettura. Eccone un esempio. Un libro dei primi del Novecento dall’esplicito titolo “Amplesso preventivo ovvero la maniera di limitare la prole secondo i principi di Malthus” testimonia come la teoria della decrescita demografica abbia portato a proporre diversi corollari.

Organizzato in due capitoli, il primo riassume la teoria della “Legge di popolazione” di Malthus ed il secondo si concentra su una serie di metodi pratici per rendere infecondo il rapporto sessuale, così da limitare le nascite e “rimediare” alla crescita del genere umano. L’autore del libro (che si firma come Dott.***) espone il teorema secondo cui la popolazione cresce con una velocità tale, che le risorse disponibili per il sostentamento umano non sono sufficienti per tutti e che l’unica soluzione è non far nascere figli per evitare la miseria. Il grande “freno repressivo” di cui parlava Malthus cioè miseria, povertà e carestia si sarebbe potuto arginare solo con l’applicazione virtuosa dei “freni preventivi” ovvero limitando le nascite. Si legge dal libro: “Riesce evidente che tutti i nostri sforzi debbono essere diretti a diminuire molto le nascite, per così diminuire molto anche le morti, prolungare la vita media degli individui, ed infine evitare soprattutto le grandi perdite di bambini dovute alla miseria, le quali com’è agevole ad intendersi, costituiscono un serio danno per la società; giacché essa perde tutto ciò che è stato necessario pel mantenimento di quegli sventurati, durante la loro breve ed inutile esistenza.”

È solo un pensiero isolato di un anonimo scrittore? Facciamo qualche riflessione. Se la considerazione dei bambini “sventurati” è solo riferibile ad una logica di perdita economica per la società, al pari di un investimento sbagliato, diventa difficile scorgere i margini che individuano il rispetto della dignità umana anche di poveri e bambini. Se una vita può essere definita “inutile”, il principio dell’intangibilità di ogni singola persona viene meno. E poi chi stabilirebbe il grado di utilità di una persona? A quali requisiti dovrebbe corrispondere?

La storia non è più intesa come il cammino dell’umanità, nello spazio e nel tempo ma come una “media aritmetica” in cui la vita di ciascuno è da considerarsi nel bilancio di un utile complessivo, in cui è degno solo ciò e solo chi rientra in un determinato parametro di tipo economico-sociale. La persona resta schiacciata da una visione della società di tipo utilitarista. E sono in particolare i poveri a risentirne. Scrive ancora il nostro autore: “Sembra a prima vista che fosse più giusto obbligare i ricchi ad avere lo stesso numero di figli che i poveri; ma basta soltanto riflettere a quanto abbiamo detto intorno all’elezione naturale ed all’eredità dei caratteri, per riconoscere che non è punto un’ingiustizia il concedere alle classi superiori una prole più numerosa…Specialmente nei paesi inciviliti…Quindi è del massimo interesse, pel miglioramento della nostra specie, che questi individui più abili, che sono riusciti vittoriosi nella concorrenza universale, facciano un numero maggiore di figli, i quali, con tutta probabilità, erediteranno le doti paterne, e verranno perciò ad innalzare il livello medio dell’umanità.”

Solo i ricchi e gli eletti delle classi sociali migliori possono concedersi più figli. Siamo ad inizio Novecento in una cultura permeata da eugenetica, darwinismo sociale e classismo. E non casualmente una dottrina come quella malthusiana, a cui si ispira questo testo, si rivela terreno fertile per queste ideologie. La società ha bisogno di elevarsi, con la migliore progenie. Allora forse, quanto abbiamo letto, non è solo il pensiero isolato di un anonimo scrittore ma una sinistra prospettiva sociale che mescola genetica, razza, ceto sociale, e controllo delle nascite. A partire da queste premesse, il resto del trattato si dedica alla tecnica dell’amplesso preventivo (che ricorda nelle parole il freno preventivo di Malthus), cioè dell’amplesso infecondo.

L’autore cita il coito interrotto, l’uso di lavande e spugne vaginali, l’uso del condom, ed una sorta di conteggio del periodo non fertile della donna. Senza fare osservazioni sulle singole tecniche descritte e sul quanto rispettino la dimensione dell’amore di uomo e donna è interessante, invece, notare come venga caldeggiata una “prospettiva contraccettiva”. Qui, non viene rivolto un discorso all’intimità di una coppia ma è posto in essere un “modus” generale che ha una finalità sociale ben precisa: diminuire il numero di persone sulla Terra. Credo si possano scorgere gli elementi di quella che potremmo definire come “mentalità contraccettiva”. Pur escludendo che l’esistenza di una idea generi automaticamente l’adesione ad essa, possono farsi anche qui alcune riflessioni.

Per star bene non occorrono tanti figli, anzi meglio essere in pochi. Proviamo a guardarci attorno e notiamo quanto sia attuale questo messaggio. In Francia la psicanalista Corinne Maier pubblica il libro dall’inequivocabile titolo “No Kid. Quaranta ragioni per non avere figli”. Tra queste una delle più interessanti è legata all’idea che sulla Terra siamo già in tanti. Al 2006 risale l’inchiesta di “Newsweek” sul crescente fenomeno delle coppie senza figli, fenomeno diffuso ed ampiamente studiato. Altro esempio nell’editoria è il libro “Child-Free and Loving It” traducibile in “Felici senza figli” di Nicki Defago. Tutta colpa di Malthus? Non possiamo dirlo. Eppure leggendo il “Principio di popolazione” alcune pagine sembrano estremamente attuali nelle proposte sociali esposte.

Cosa accomuna il pensiero “zero-bambini”, di due secoli fa con quello del nostro tempo? Una volta la conservazione della classe, dei privilegi per pochi, della razza; oggi il mito della carriera, del reddito confortevole, di una vita sessuale libera e senza il rischio di una gravidanza. Tempi diversi ma una comune visione utilitarista e riduzionista della persona umana. E poi, chiaramente, l’idea che siamo troppi e le risorse poche. All’epoca, come ora. Il concetto di famiglia in questa dimensione viene modificato, non c’è più spazio per l’accoglienza responsabile della vita ma solo per il benessere individuale. Ora se ammettiamo che un figlio è dono, seme della società, non si può accettare acriticamente, la diffusione di un modello sociale basato su di una mentalità egoista. Il primato del fattore economico su quello etico, la scelta cioè di assumere come principio di riferimento un bene materiale (le risorse, i mezzi di sussistenza, la disponibilità di terra, ecc) al di sopra della persona umana e della sua dignità è sintomo di adesione a quella visione utilitarista della società, secondo cui ciò che è vantaggioso diventa anche giusto.

Valutare che una popolazione povera non debba procreare, per mantenere uno status generale di vita ottimale (ottimale per chi, se non per chi ha già una certa ricchezza?!) diventa applicazione di un principio economico-sociale lesivo dei diritti di un popolo o di una classe sociale. Non è casuale in tal senso, che anche le teorie socialiste e comuniste abbiano nel tempo criticato l’impostazione malthusiana. Valutare la nascita di una nuova vita come un impoverimento, contraddice il senso stesso dell’amore e della famiglia da cui “il generare” discende. Il “crescete e moltiplicatevi” non vuole essere allora una risposta cieca ed un invito irragionevole alla procreazione. Anzi la visione cristiana, mostra sempre più una dimensione di genitorialità responsabile e consapevole in cui la coppia, a part
ire dall’invito biblico, trova una propria adesione al progetto di Dio, in armonia con la specificità ed unicità del proprio essere coppia ed in armonia con il Creato. Generare la vita non è quindi una mera risposta ad un impulso fisiologico, ne una sudditanza passiva ad un comandamento, ne il perpetuare la specie biologica ma può diventare segno di un andar contro corrente. È segno di una cultura tesa a donare piuttosto che ad avere; di una società che vuol andar “incontro al prossimo” piuttosto che sfuggirlo; di uomini e donne che imparano giorno per giorno a fidarsi, come figli accolti ed amati da quel Dio che troppo spesso dimentichiamo.

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* Docente di Matematica e Scienze presso la Scuola secondaria statale e docente al Master di Scienze Ambientali dell’Università Europea di Roma.

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ZENIT Staff

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