Sciascia, l'ateismo e la religiosità

Una lezione con gli studenti dell’Università di Padova di trentanni fa

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Sul terzo numero della rivista internazionale di studi sciasciani Todomodo (1) viene presentata la trascrizione della registrazione di una conferenza che si svolse nel febbraio del 1984 all’Università di Padova, nell’ambito di una serie di incontri organizzati per discutere dell’ateismo degli Italiani, nella quale lo scrittore Leonardo Sciascia tenne prima una breve relazione sul tema e poi rispose alle domande dei presenti (2).

Defluita l’onda mediatica ed emotiva di una serie di ricorrenze ed eventi, come il primo anno di pontificato di Papa Bergoglio o il ventennale dall’uccisione di don Giuseppe Diana da parte della camorra (con il successivo incontro del Papa con i familiari delle vittime della mafia), proviamo a fornire un contributo, per aiutare a consolidare quanto è stato detto, scritto e prodotto, utilizzando in questo caso, le parole e le risposte di Sciascia (3).   

Nel suo intervento, Sciascia riprende le tre definizioni platoniche sull’ateismo: la prima, riconducibile al materialismo, che nega l’esistenza della divinità; la seconda, riconducibile allo scetticismo, che crede che la divinità esista ma non si curi delle cose umane; la terza, quella sulla quale si concentrerà la riflessione dello scrittore, ed è la credenza che la divinità possa essere propiziata con doni e offerte.

L’ateismo di chi, dice Sciascia, osservando i riti, invocando Dio o facendo offerte, mette in atto forme propiziatorie e pertanto si consente anche comportamenti al di fuori delle regole e instaura una sorta di rapporto di corruzione con Dio, quasi come se fosse un ministero.

Peraltro, Sciascia ritiene che il ritorno al Cristianesimo (ricordiamo che erano i primi mesi dell’84), non sembra scalfire questo tipo di ateismo, ma essere solo un ritorno di reduci alla ricerca di quella felicità che ideologie sconfitte sulla Terra, non avevano realizzato.

Con il supporto del pensiero e delle opere di filosofi e letterati come Giuseppe Rensi, Victor Hugo  e Luigi Pirandello, definisce meglio il suo pensiero, confermando che è impossibile vivere un rigoroso ateismo e che vi è sempre qualche momento della giornata, nel quale ci si rivolge e si vive in spirito cristiano. 

E chiude la relazione facendo riferimento al tema della pace, come elemento di profonda religiosità, emergente in quel periodo.

Poi, è nel corso del colloquio con i presenti che alcune riflessioni vengono esplicitate in maniera più netta, anche perché, come dice lo stesso Sciascia in modo autoironico “non mi fido di parlare a braccio, perché sono un parlatore piuttosto sciagurato”.

In questo modo, alle domande su cosa intenda Sciascia per religiosità, lo scrittore ribadisce il senso di vivere secondo lo spirito del Vangelo, di cercare la verità, di ritenere Cristo un grande personaggio, ma ribadisce anche la necessità di fare riferimento ad alcune figure di rottura nella Chiesa di allora, come il Cardinale Pappalardo sulle questioni della mafia rispetto alle posizioni di alcuni suoi predecessori e la sua difesa della scelta di essere eletto nelle file del Partito Radicale, sia pure come indipendente, per la possibilità di esprimere liberamente le sue posizioni.

E’ riportato anche un vivace scambio di considerazioni con un gesuita, il quale nel valorizzare le opere dei benedettini o dei tomisti ricorda anche la frase “chi siamo noi per giudicare”, mentre lo scrittore siciliano chiede, e si chiede, se veramente pensiamo di vivere in un mondo cristiano…

Questo intervento di Sciascia si inserisce nell’ambito di un approfondimento più strutturato fatto dalla rivista, in questo numero di Todomodo, dove si ripercorre il tema del “Sentimento e della coscienza religiosi in Leonardo Sciascia” e che riporta quanto emerso nella terza edizione dei “Colloquia” che si svolsero a Palermo nel novembre del 2012 (4).

Proprio in uno di questi interventi, così il giornalista Gurgo riprende una frase di Alberto Cavallari (5) scritta sul Corriere della Sera nel dicembre del 1973: “Leggendolo più volte, mi sono chiesto se non sia il caso di vedere Sciascia fuori dai vecchi schemi. Magari chiedendoci se (come un altro narratore meridionale, Silone) non sia giunto a esprimere il massimo della sua vocazione come scrittore morale e cristiano”.

Andando oltre la discussione sulla sua conversione, molto prima della sua scomparsa.

*

NOTE 

1) La rivista, annuale, è stata pubblicata a novembre 2013 ed è edita da Leo S. Olschki (www.olschki.it). Altri approfondimenti si possono trovare nelle edizioni di Zenit del 23 febbraio e del 1 marzo di quest’anno.

2) La trascrizione è stata curata da Carlo Fiaschi e Paolo Squillacioti sulla registrazione disponibile da Radio Radicale. 

3) Leonardo Sciascia nacque a Racalmuto in provincia di Agrigento nel 1921 e  morì a Palermo nel 1989. Autore di importanti libri che esplorano ancora oggi il tema dei legami del potere, della religiosità, della criminalità  (tra questi citiamo solo Todo Modo, L’affaire Moro, Il giorno della Civetta), Sciascia in uno dei suoi interventi giornalistici più ricordati creò la figura del “professionista dell’antimafia”, cioè di colui che riceve onori e meriti in funzione delle sue posizioni / partecipazioni pubbliche contro la criminalità o per alcuni elementi retorici nel discorso pubblico.

4) Gli interventi, che coprono circa una ottantina di pagine, oltre alla trascrizione dei due dibattiti seguiti alle relazioni di Massimo Naro (“Cogitando somniare””: la reversibilità come sintassi della verità in Sciascia) e di Claude Ambroise (Sulla letteratura), hanno visto anche la partecipazione di Carlo Ossola, del Collège de France e di scrittori, giornalisti quali Ottorino Gurgo e Angiolo Bandinelli.

5) Direttore del Corriere della Sera dal 1981 al 1984.

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Antonio D'Angiò

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