di Luciano Eusebi*
ROMA, sabato, 7 luglio 2012 (ZENIT.org).-
1. La Costituzione ha sancito un profondo mutamento di prospettiva nel modo d’intendere il potere della legge di obbligare i cittadini: da un approccio che vedeva la giustificazione dei comandi giuridici nella volontà sovrana (un tempo assoluta, successivamente espressa secondo il metodo democratico) a un approccio secondo cui simili comandi si giustificano ultimamente solo come strumento di salvaguardia e di promozione dei diritti inviolabili dell’uomo, non a caso riconosciuti – piuttosto che attribuiti – dalla Repubblica.
Nel primo senso il fulcro del sistema giuridico rimane il potere autoritativo dello Stato (cui il cittadino soggiace, salvo solo l’esercizio del voto). Nel secondo caso al centro dell’interesse c’è l’individuo umano, in quanto portatore di diritti: o più precisamente, in quanto portatore dell’aspettativa che gli altri individui e le pubbliche istituzioni agiscano in modo conforme al riconoscimento di quei diritti (e dunque della sua dignità umana), assumendo i doveri necessari affinché la titolarità dei diritti non rimanga un’astrazione.
Ne deriva che l’intero sistema giuridico è da intendersi al servizio, in via diretta o indiretta, dei diritti umani. Tanto è vero che nel caso in cui una qualche compromissione di questi ultimi sia giuridicamente autorizzata o tollerata ciò si configura come derogarispetto alla ordinarietà della loro salvaguardia (non a caso, simili deroghe sono per lo più ricostruite come cause di giustificazione o come cause di non punibilità).
Il caso appare tuttavia particolarmente delicato allorquando la condotta certamente o potenzialmente lesiva di uno dei diritti fondamentali risulti, per qualsiasi ragione, non solo ammessa, ma imposta dalla legge con riguardo a determinati soggetti. Ed è proprio questo l’ambito in cui può maturare un’obiezione di coscienza, la quale ha per contenuto l’indisponibilità soggettiva al possibile coinvolgimento, richiesto dalla legge, nell’offesa di un diritto che si manifesti, nondimeno, costituzionalmente significativo.
La scelta dell’obiettore non rappresenta, dunque, una disobbedienza, a priori antigiuridica, nei confronti del potere legislativo inteso come artefice puramente discrezionale del diritto. Piuttosto, esprime una fedeltà incondizionata a taluno dei diritti fondamentali il cui riconoscimento è fonte del diritto e per la cui salvaguardia lo stesso ordinamento giuridico esiste (sebbene deroghi, talvolta, alla loro tutela).
2. Senza dubbio, peraltro, sono numerosissimi i casi in cui la legge non può non operare un bilanciamento fra esigenze riconducibili a beni fra loro diversi. Ciò individua, anzi, uno dei compiti propri della legge, e non sarebbe immaginabile che il rispetto delle norme in tal modo definite sia discrezionale, in nome della preminenza soggettivamente attribuita all’uno o all’altro bene. In caso contrario risulterebbe compromessa la funzione stessa di organizzazione sociale svolta dal sistema giuridico. Le cose, tuttavia, stanno in modo diverso quando si richieda al cittadino la disponibilità, dati certi presupposti, alla compromissione di un bene che abbia rango sovraordinato nella gamma dei diritti inviolabili o che risulti, comunque, di rango superiore rispetto ai beni che risulterebbero privilegiati. In tali contesti, infatti, l’individuo che fa valere l’obiezione di coscienza manifesta la volontà di mantenersi ancorato, come già si osservava, al rispetto di beni cardine per la costruzione del sistema giuridico e alla gerarchia tra i beni fondamentali (a prescindere, in questa sede, dalla discussione dei motivi in base ai quali il legislatore abbia ammesso o richiesto l’offesa di un dato bene).
Ove dunque il rango sovraordinato, o la preminenza gerarchica, di certi beni non abbia fatto sì, in concreto, che di quei beni risulti giuridicamente esclusa a priori la compromissione (o la soccombenza rispetto a un bene di livello inferiore), ciò esige, quantomeno, che l’eventuale lesione dei medesimi non possa essere imposta. Altrimenti il particolare ruolo costituzionale che a essi compete (o la loro preminenza rispetto ad altri beni) perderebbe ogni rilievo.
Nel quadro descritto, pertanto, l’obiezione di coscienza si manifesta come un diritto direttamente desumibile dalla Costituzione e la sua ammissibilità rappresenta il presidio minimo di un sistema costituzionale che non acceda a una totale flessibilizzazione dei diritti inviolabili.
Appare realistico, tuttavia, escludere il diritto di obiettare quando l’esercizio di una determinata professione abbia come caratteristica prioritaria proprio la disponibilità a tenere la condotta che ponga un problema di coscienza e, nel contempo, non sussista alcun dovere di svolgere tale professione: casi paradigmatici possono individuarsi nella carriera militare professionistica, rispetto all’eventualità di ferire o di uccidere, o nei compiti del giudice penale, rispetto all’applicazione di sanzioni che privino per lungo tempo un individuo della libertà.
Si tratta, infatti, di professioni le quali risultano per così dire strumentali alla realizzazione dei fini che esigono, secondo la legge, la disponibilità a operare una deroga nei confronti dell’intangibilità di un certo bene. E questo non è certo il caso, con riguardo all’agire contro la vita, delle professioni sanitarie.
Nelle ipotesi suddette sembra assumere rilievo, piuttosto, l’impegno affinché talune modalità problematiche dal punto di vista morale del perseguimento di determinati obiettivi da parte dei sistemi giuridici siano progressivamente superate.
3. Si tratta dunque di domandarsi, innanzitutto, se siano individuabili beni sovraordinati rispetto agli altri beni di rilievo costituzionale, così che una lesione dei primi non possa in alcun caso essere imposta. Ora, l’unico bene che, nell’impianto costituzionale, assume un rango prioritario oggettivo rispetto a tutti gli altri beni è costituito dalla vita umana.
E infatti i diritti inviolabili riconosciuti dall’art. 2 della Costituzione sono tali in quanto il loro sussistere non dipende da un (altrui) giudizio sulle qualità o sulle capacità che la vita di un individuo umano manifesti in uno specifico momento, bensì esclusivamente dall’esistenza in vita di ciascun individuo. Ciò rappresenta il contenuto sostanziale del principio di uguaglianza, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione: siamo uguali perché la titolarità dei diritti inviolabili ha come unico presupposto la vita di un essere umano, così che ogni individuo senza eccezione, in tutto l’arco del suo esistere e in qualsiasi circostanza, non può esserne ritenuto privo. Il rango particolare della vita umana, pertanto, non discende da mere considerazioni di carattere filosofico, bioetico o religioso. Piuttosto, il rispetto della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali (e dunque come ugualmente titolari degli altri diritti inviolabili), in quanto principio cardine dell’impianto costituzionale nonché fondamento della democrazia.
Con riguardo, poi, al criterio di accertamento del sussistere di una vita umana – posto che i diritti inviolabili sono costituzionalmente riconosciuti, e non istituiti secondo una definizione convenzionale della loro estensione – è impossibile trascurare un dato fondamentale: ove sia in atto, per qualsiasi specie tra gli esseri viventi, una sequenza esistenziale che proceda in modo autonomo, continuo e coordinato, è irreperibile in tale sequenza qualsiasi momento che possa segnare un discrimine non arbitrario in ciò che tale sequenza è, vale a dire la vita di un individuo della specie in discussione.
Risultano da gran tempo improponibili, del resto, tesi dualistiche
secondo le quali il proprium dell’umano avrebbe un’origine diversa da quella del corpo in senso biologico. Quanto caratterizza l’essere umano, infatti, si esprime attraverso il corpo, secondo un’unità che non consente di separare l’attivarsi della vita biologica da quello dell’umano nel suo insieme. Per cui, parallelamente, fino a quando va svolgendosi una vita appartenente alla specie umana è in gioco la presenza della dignità umana.
In questo senso, rappresenta una delle più grandi conquiste giuridiche moderne quella che ha scisso la titolarità dei diritti umani (per esempio, dei fanciulli) dall’espressione attuale delle capacità potenzialmente connesse all’esistenza umana e che, nel contempo, ha riconosciuto la pienezza dei diritti anche quando la vita risulti ferita dalla malattia o da qualsiasi compromissione di tali capacità.
Dal momento in cui, dunque, la suddetta sequenza, secondo le caratteristiche che le sono proprie, risulta in atto, cioè dalla fecondazione dell’ovocita femminile maturo (ma anche dal determinarsi di una gemellanza monovulare oppure, a parte il giudizio etico, dall’attivarsi di una clonazione) esiste la vita di un individuo umano1. E ciò fino a quando il coordinamento unitario dell’organismo sia venuto meno, il che viene identificato nella morte completa dell’encefalo.
Nell’ambito temporale in tal modo descritto sussiste, dunque, il bene giuridico costituito dalla vita umana.
4. Vi sono tuttavia casi in cui l’ordinamento giuridico ammette, o comunque non sanziona, la lesione del bene vita, nonostante il rango che a quel bene compete: e ciò non soltanto in situazioni di conflitto inerenti alla salvaguardia della vita di un altro soggetto (vale a dire nel quadro giuridico tradizionale dello stato di necessità). Si è avuta, in altre parole, una flessibilizzazione dello stesso bene vita, che è stato reso – talora – nient’affatto inviolabile dal punto di vista giuridico anche nel confronto con beni di rango inferiore.
E a tal proposito non può sottacersi l’impatto dirompente circa il ruolo dei diritti umani nei sistemi costituzionali moderni derivante dal fatto per cui, in anni recenti, si sono reintrodotte forme di gradazione del diritto alla vita: con riguardo, in particolare, all’epoca (pre-annidatoria o, comunque, prenatale) in cui essa venga presa in considerazione, e pertanto in rapporto a determinate modalità del suo manifestarsi.
È infatti palese, ad esempio, che la discriminazione tra il rango della vita pre- e postnatale in base all’assunto secondo cui il concepito «persona ancora deve diventare» (cfr. Corte cost. 18 febbraio 1975, n. 27, in materia di interruzione volontaria della gravidanza) non si fonda su alcuna differenza qualitativa nella sequenza esistenziale in atto. Né tale differenza potrebbe essere istituita per via meramente giuridica richiamando l’art. 1 del codice civile, laddove afferma che «la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita»: tale norma, infatti, non è certo in grado di inficiare la titolarità in capo a ogni individuo, sulla base della mera esistenza in vita, dei diritti costituzionali inviolabili.
Diversamente, del resto, si dovrebbe dedurre dall’art. 1 del codice civile l’assenza di qualsiasi diritto in fase prenatale: posizione, questa, che non è mai stata fatta propria dall’ordinamento italiano e che contrasterebbe con lo stesso preambolo della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, la quale cita, a sua volta, il preambolo della Dichiarazione approvata dall’ONU sui diritti del fanciullo affermando che quest’ultimo «a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita».
Nel medesimo senso, prospettare addirittura l’utilizzabilità in rapporto alla vita umana, con riguardo alla fase embrionale, della categoria di ascendenza amministrativa rappresentata dai diritti affievoliti (cfr. Corte cost. 1° aprile 2009, n. 151) risulta invero sorprendente e foriero di deduzioni (ben oltre l’ambito della vita prenatale) forse non valutate in modo adeguato.
Quali che siano, dunque, le considerazioni cui si ricorra allo scopo di rendere praticabili dal punto di vista giuridico condotte per sé idonee a compromettere l’ulteriore svolgersi di una vita umana, viene pur sempre in rilievo, nei casi in esame, il bene costituzionale della vita umana in quanto oggetto di una mancata salvaguardia.
Resta d’altra parte significativo che quei casi siano pur sempre configurati dal diritto in termini di eccezionalità rispetto a norme generali intese alla salvaguardia della vita.
5. Si configura, tuttavia, un profilo ulteriore della menzionata eccezionalità: quello per cui, talora, non soltanto risultano autorizzate condotte in grado di compromettere una vita umana, ma vengono previsti per determinati soggetti, in modo esplicito o indirettamente, obblighi giuridici aventi per contenuto la realizzazione di tali condotte o la cooperazione alle medesime. Ed è proprio tale circostanza, ovviamente, che assume rilievo ai fini dell’obiezione di coscienza.
Come peraltro già si evidenziava, l’indisponibilità soggettiva a essere compartecipi di tali condotte, se pure rivendica una deroga rispetto all’obbligo di legge, non può considerarsi derogatoria in rapporto all’assetto dei beni costituzionali e al rango sovraordinato che in esso assume la salvaguardia della vita di ogni essere umano.
Simile indisponibilità, del resto, non ha certo minore fondamento costituzionale, e anzi lo ha ordinariamente più solido, delle norme che impongano l’adozione di condotte in grado di ledere il bene giuridico rappresentato dalla vita umana.
Si può dunque concludere che il rilievo giustificante dell’obiezione di coscienza, nei casi in cui essa sia opposta verso obblighi la cui osservanza potrebbe por fine, in qualsiasi fase, a una vita umana, ha fondamento costituzionale ed è direttamente deducibile dagli artt. 2 e 3 della Costituzione.
L’incoercibilità da parte del diritto positivo di atti lesivi, o potenzialmente lesivi, di una vita umana rappresenta, in altre parole, il contenuto minimo e irrinunciabile che dev’essere dedotto dal ruolo particolare della vita stessa fra gli altri beni costituzionali, in quanto bene la cui salvaguardia è strettamente connessa alla garanzia in senso sostanziale dell’uguaglianza tra gli esseri umani.
Ne deriva che ove l’ordinamento giuridico non intenda limitarsi ad autorizzare determinate condotte idonee a ledere il bene vita, ma intenda altresì assicurare certi livelli della loro praticabilità in concreto, ciò non sarà praticabile facendo leva sulla coazione di determinati operatori in quanto agenti, per esempio, nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, ma risulterà eventualmente attuabile solo attraverso altre modalità organizzative2.
All’interno del Servizio sanitario, d’altra parte, non esistono di certo ruoli professionali che abbiano come loro caratteristica essenziale e qualificante proprio la tenuta delle condotte in esame, così che la scelta di assumere quei ruoli, come più sopra si osservava, possa presupporre la disponibilità ad attuarle.
E ciò non potrà non valere, al pari di quanto previsto in materia di interruzione volontaria della gravidanza, anche con riguardo alla prescrizione o alla somministrazione da parte del medico, o alla vendita da parte del farmacista, della c.d. pillola del giorno dopo o dei cinque giorni dopo.
Ove, dunque, si tratti di obiezione a condotte capaci di ledere una vita umana, la rilevanza scriminante dell’obiezione stessa non dipenderà dall’esplicita previsione in una norma di legge. Il che supera a fortiori lo stesso interrogativo circa l’applicabilità analogica delle disposizi
oni attualmente previste all’art. 9 l. n. 194/1978 e all’art. 16 l. n. 40/2004. Trattandosi, peraltro, di norme che restringono l’ambito dell’intervento sanzionatorio e che sono riferibili a una regola generale di non coercibilità degli atti che possano compromettere una vita umana (cfr. l’art. 14 disp. sulla legge in generale), di esse non potrebbe comunque escludersi l’applicabilità (analogica) nei casi in cui sussista un medesimo pericolo di offesa del bene vita rispetto alle ipotesi contemplate ex legee, dunque, una medesima ratio circa il rilievo dell’obiezione.
Quanto s’è detto comporta altresì che l’ambito applicativo di quest’ultima sia riferito a tutti gli atti i quali, ex ante, si manifestino come condizione in concreto necessaria rispetto al prodursi della situazione lesiva o pericolosa per la vita umana: vale a dire, non soltanto in riferimento agli atti con cui il realizzarsi della condotta produttiva della lesione o del pericolo possa dirsi compiuto (per esempio, la somministrazione della sostanza che induca le contrazioni ai fini di un aborto), ma anche in riferimento agli atti, precedenti o successivi, la cui programmazione sia prevista necessaria, per l’appunto, affinché il compiersi della condotta summenzionata possa avere luogo.
Va infine precisato che, rappresentando l’obiezione di coscienza verso obblighi suscettibili di operare a danno della vita umana un vero e proprio diritto costituzionale e non configurandosi in ambito sanitario ruoli professionali che abbiano quale contenuto tipico l’assunzione degli stessi, sarebbe illegittima qualsiasi discriminazione ai fini delle carriere professionali la quale dipenda dall’esercizio dell’obiezione medesima.
L’accesso e la valutazione nei concorsi per la copertura di quei ruoli, di conseguenza, non possono in alcun caso risultare condizionati dall’atteggiamento rispetto agli obblighi per i quali risulti proponibile un’obiezione di coscienza.
6. Deve infine considerarsi come, in rapporto alle attività sanitarie, emerga l’indirizzo normativo di fondo orientato a garantire che le medesime restino caratterizzate in qualsiasi caso (e dunque anche in situazioni diverse rispetto a quelle cui finora s’è fatto riferimento) dall’assunzione di condotte conformi a coscienza.
Lo si evince, fra l’altro, dall’art. 22 del codice deontologico del medico, secondo cui «il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita, e deve fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento»3.
Si configura, in questo senso, un principio riferibile all’insieme delle professionalità operanti in ambito sanitario – mediche, infermieristiche, ostetriche, farmaceutiche, ecc. – e mai considerato in contrasto con la legge. Esso riflette la concezione di un’assistenza sanitaria che continui a fondarsi non su meri adempimenti, ma su una responsabilizzazione personale degli operatori, la quale implica l’esigenza degli stessi di poter agire senza imporre a se medesimi ciò che non ritengano giusto, e pertanto in modo conforme sia a una propria valutazione ultima circa le evidenze mediche pertinenti in ciascun caso concreto, sia rispetto alla moralità del proprio agire.
Una condizione, questa, che è indispensabile a creare quel rapporto di alleanza col paziente, cioè non solo di relazionalità burocratica o contrattuale, cui oggi giustamente si attribuisce grande valore nell’esercizio della medicina e di tutte le attività connesse.
L’unico limite è individuato nell’intento di evitare che il ricorso alla clausola suddetta possa avere per conseguenza, secondo la formula poco sopra richiamata, un «grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita».
(Il testo riprende, con modifiche, contenuti espressi nella voce Obiezione di coscienza del professionista sanitario, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, vol. III, I diritti in medicina, a cura di L. Lenti, E. Palermo Fabris, P. Zatti, Giuffrè, Milano, 2011, p. 173 ss.)
* Professore Ordinario di Diritto Penale
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano,
Consigliere nazionale Associazione Scienza & Vita
<em>(La seconda puntata è stata pubblicata ieri, venerdì 6 luglio)
(Per consultare la newsletter di Scienza & Vita, si può cliccare sul seguente link: http://www.scienzaevita.org/materiale/Newsletter58.pdf)
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NOTE
1 Cfr. Corte di giustizia dell’Unione Europea (Grande Chambre) 18 ottobre 2011 (proc. C-34/10 Brüstle contro Greenpeace eV) e, in proposito, L. Eusebi, Beni giuridici e generazione della vita. Note alla luce di alcune vicende giudiziarie europee, in Criminalia, 2011, p. 523 ss.
2 Cfr. la Risoluzione 1763 (2010) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa: «Nessuna persona, struttura ospedaliera aborto o altra istituzione può essere fatta oggetto di pressione, chiamata a rispondere o in alcun modo discriminata per il rifiuto di dare esecuzione, dare aiuto, dare assistenza o soggiacere (submit, s’y soumettre) a un aborto, a un aborto autoprocurato, a un’eutanasia o a qualsiasi atto che possa essere causa della morte di un feto o embrione umano, quali ne siano le ragioni» (n. 1). Solo su tale base il medesimo testo (n. 2) si esprime nel senso della «necessità di affermare il diritto all’obiezione di coscienza insieme con la responsabilità dello Stato di garantire che ciascun paziente sia in grado di accedere a trattamenti medici legali in modo tempestivo».
3 Nel medesimo senso il punto 3.16 del Codice deontologico 2010 dell’ostetrica/o («L’ostetrica/o di fronte ad una richiesta di intervento in conflitto con i principi etici della professione e con i valori personali, si avvale della obiezione di coscienza quando prevista dalla legge e si avvale della clausola di coscienza negli altri casi, garantendo le prestazioni inderogabili per la tutela della incolumità e della vita di tutti i soggetti coinvolti»), come pure la seconda parte dell’art. 8 del Codice deontologico 2009 degli infermieri («Qualora vi fosse e persistesse una richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori, [l’infermiere] si avvale della clausola di coscienza, facendosi garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la vita dell’assistito»; a sua volta il Codice deontologico 2007 del farmacista afferma all’art. 3 che quest’ultimo «deve operare in piena autonomia e coscienza professionale, conformemente ai principi etici e tenendo sempre presenti i diritti del malato e il rispetto della vita».