di Pietro Barbini
ROMA, martedì, 17 luglio 2012 (ZENIT.org) – Fino al 1797 nella Serenissima Repubblica il 17 luglio era considerato giorno di precetto, dedicato a Santa Marina di Bitinia. Il culto della santa rientrava ufficialmente nel calendario liturgico veneziano.
Ogni anno il doge, seguito da tutti i Consiglieri, i capi della Quarantia e il Collegio, si recava in pellegrinaggio alla chiesa dedicata alla santa, sulla cui soglia l’attendeva il parroco per porgergli la reliquia della Santa da baciare (molto probabilmente una mano); dopo aver partecipato alla celebrazione di una messa letta, si recavano tutti in Basilica di San Marco per partecipare ad una solenne messa cantata, terminata la quale si assisteva alla sfilata delle nove congregazioni del clero e delle confraternite cittadine, con i loro stendardi e vestiti tipici, in solenne processione all’interno della Basilica stessa. Mons. Antonio Niero, in un suo esaustivo studio sulla vita della santa e il suo culto, rammenta la numerosa partecipazione popolare che “accorreva a Santa Marina da ogni angolo della città di Venezia” per partecipare all’evento, compresi armeni, greci ed asiatici residenti a Venezia.
La scelta del 17 luglio, come giorno a lei dedicato, fa riferimento alla traslazione del corpo, da Bisanzio a Venezia, avvenuta nell’anno 1228 ad opera di un tal Giovanni Buoro, un mercante veneziano; il culto poi si intensificò dopo l’espugnazione di Padova da parte dei serenissimi, una vittoria avvenuta in un modo ritenuto miracoloso, attribuito all’intercessione di Santa Marina. Dopo la caduta della Repubblica le celebrazioni e i rituali si andarono sempre più ridimensionando, circoscrivendosi in un primo momento nella zona parrocchiale di Santa Marina, per poi scomparire completamente dal folklore popolare. I festeggiamenti persistettero esclusivamente all’interno del clero veneziano fino alla seconda metà del secolo scorso, dopodiché tale festa venne soppressa con le nuove riforme liturgiche. Il culto per la santa vergine rimane comunque tutt’ora molto vivo e diffuso nel mondo; ogni anno, centinaia di fedeli devoti provenienti da tutto il mondo, in particolar modo dall’est Europa, si recano in pellegrinaggio a Venezia per venerare il corpo della Santa. Ufficialmente la Chiesa cattolica la festeggia il 18 giugno, come riporta il Martiriologio Romano, il 21 agosto, invece, viene celebrata dalla Chiesa copta ortodossa e da quella maronita.
La vita di Santa Marina di Bitinia è sicuramente una delle più affascinanti narrazioni riscontrate nelle innumerevoli agiografie cristiane a nostra disposizione. Dalla biografia di questa santa si potrebbe senza dubbio ricavarne la trama per un’intrigante romanzo da best seller, o una di quelle appassionanti pellicole, la cui trama intessuta di suspense e colpi di scena lascia con il fiato sospeso lo spettare dal primo all’ultimo minuto. Da sempre la storia di questa santa ha entusiasmato numerosi agiografi ed appassionati dell’argomento. Non a caso la bibliografia prodotta fino ad oggi è alquanto ricca, comprese le testimonianze pervenuteci in numerose lingue (aramaico, copto, armeno, greco, arabo, siriaco, etiope, latino, tedesco e francese antico).
Spesso gli storici hanno dovuto fare i conti con le numerose coincidenze ed omonimie, in particolar modo con la santa martire di Antiochia. Le fonti più accreditate ci fanno sapere che Santa Marina è nata in Bitinia, l’antica regione romana dell’Asia Minore, più precisamente in Libano, nel 714-15 circa (gli studi sulla data di nascita ed il periodo in cui visse, sono spesso discordanti; ad esempio alcuni studiosi affermano sia vissuta tra il IV e il V secolo). Marina nacque in una famiglia cristiana di umili origini, dalla quale ricevette i primi rudimenti religiosi.
A dieci anni, dopo la morte della madre, il padre, di nome Eugenio, venerato come santo dalla Chiesa Greco ortodossa, decise di affidare la giovane figlia ad alcuni parenti e di ritirarsi nel Cenobio, un monastero, situato nella valle di Kanoubine, in Siria, fatto di celle e grotte scavate nella roccia, i cui frati, in tutto 40, vivevano in solitudine e preghiera seguendo le regole di San Basilio. La tristezza di entrambi, dovuta alla lontananza, costrinse il padre, su consenso e desiderio della figlia, ad escogitare uno stratagemma per farla ammettere anch’ella in convento; fu così che raccontò all’egumeno (l’abate), che gli chiese motivo della sua malinconia, di avere lasciato un figlio a casa, il quale, tra l’altro, desiderava entrare anch’egli nel monastero. L’Abate, commosso dal racconto di Eugenio, che stimava e teneva in grande considerazione, acconsentì all’ammissione del figlio nel monastero.
Allora, tornato a casa, rasò i lunghi capelli della figlia, la vestì da uomo e le cambiò il nome in Marino, dopodiché si misero tutti e due in cammino verso il monastero. Nel corso del lungo viaggio il padre istruì la giovane quattordicenne nella lettura, le espose i comandamenti e la vita di Gesù, insegnandole tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno per combattere le “insidie del nemico”; come ultima cosa si fece promettere dalla figlia che non avrebbe mai dovuto rivelare a nessuno la sua vera identità. Vissero così assieme, nella stessa cella, per tre anni, dopodiché Eugenio passò a miglior vita.
La giovane Marina, però, continuò in solitudine la vita monastica osservando meticolosamente i comandamenti e la dottrina impartitagli dal padre, progredendo di giorno in giorno in virtù, attraverso un’intensa attività di preghiera, meditazione e digiuno, diventando ben presto un esempio per tutti i confratelli e per questo fu amato dall’Abate più degli altri. Già in vita ebbe in dono il carisma di cacciare i demoni imponendo le mani sugli indemoniati e sui malati. Alcune fonti narrano che il padre, per giustificare i tratti femminili di Marina, raccontò che il figlio fosse un eunuco, altri dicono che fossero gli stessi frati a pensarlo, altri ancora dicevano che il volto senza barba era dato dall’intensa attività ascetica e dai numerosi digiuni operati da frate Marino; fatto sta che nessuno mise mai in dubbio l’identità di fra Marino.
Ogni mese alcuni monaci, a turno, venivano inviati dall’Abate nei paesi vicini per svolgere affari economici e non di rado capitava che a metà del viaggio, con l’avvicinarsi della notte e sostassero in una locanda per recuperare le forze. Un giorno fu inviato anche fra Marino che, assieme agli altri confratelli, passò la notte, come di consueto, nella solita locanda. Il locandiere aveva una figlia che rimase incinta di un soldato che, casualmente, soggiornò nella locanda lo stesso giorno in cui soggiornarono i monaci. Fu così che la figlia del locandiere, istigata dal demonio, accusò di molestie fra Marino. I genitori della ragazza infuriati si presentarono al convento raccontando l’accaduto all’Abate che, incredulo, considerando la santità di Marino, lo fece chiamare per udire dalla sua bocca se le accuse mosse fossero vere. Inverosimilmente Marino non si discolpò ma, dopo aver pensato a lungo, si mise a piangere pronunciandole seguenti parole: “Padre, peccai, sono apparecchiato alla penitenzia”.
A questo punto l’Abate dopo averlo punito duramente lo cacciò. Marino, dunque, visse per tre anni di stenti nei pressi del monastero, giacendo per terra, piangendo ed affliggendosi per un fatto da lui non commesso, pregando e facendo penitenza con grande umiltà, non raccontando mai a nessuno dell’accaduto. Visse cibandosi di erbe selvatiche e accettando qualche elemosina. Inoltre il locandiere, dopo che la figlia ebbe partorito, le affidò il “figlio del peccato”, di nome Fortunato, che crebbe con amore e pazienza (si racconta che lo allattò dal proprio seno). Passati tre anni i monaci del convento, rimasti ammirati da tanta virtù, chiesero con forza all’egumeno la riammissione del confratello, il quale, dopo reiterat
e richieste, acconsentì con molte resistenze, ammettendo anche il bambino, a condizione che si mettesse al completo servizio dei frati; le furono, dunque, assegnati i lavori più umili e faticosi che svolse senza mai lamentarsi, non trascurando il figlio adottivo che educò con amore alle virtù monastiche.
Dopo qualche tempo Marino, stanco e colpito al fisico dal continuo e duro lavoro, fu trovato morto nella sua cella, all’età di 25 anni. Fu così che scoprirono che in realtà Marino era una donna e tutti cominciarono a piangere e a battersi il petto per le ingiurie e le afflizioni che gli avevano fatto. La figlia del locandiere, rimasta posseduta dal demonio, dopo aver udito la notizia corse al convento gridando la sua “vergogna” e proprio in quel momento santa Marina la liberò dal demonio. Quel giorno il corpo, su ordine dell’egumeno, fu lasciato nell’oratorio per la devozione della gente. I giorni seguenti in molti, dei paesi vicini, accorsero al capezzale della santa che poco dopo fu seppellita all’interno del monastero. Qualche tempo più tardi le sue spoglie furono trasferite in Romania e poi, per volere degli imperatori, furono portate a Bisanzio e da qui, nel 1228, a Venezia e collocate nella Chiesa a lei dedicata. Tra il 1806 e il 1810, nel corso della dominazione napoleonica, la Chiesa di Santa Marina fu soppressa e le reliquie vennero spostate nella vicina Chiesa di Santa Maria Formosa, dove si trovano tutt’ora riposte all’interno di una teca.