È notizia di questi giorni che all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo sia stato effettuato un intervento al cuore ad un paziente particolare. Già è un fatto speciale che ormai si possa salvare una vita con interventi che fino a pochi anni fa erano impensabili, ma questo evento ha qualcosa di particolare, perché il paziente è un piccolo feto. Si trattava di un feto di 33 settimane dal concepimento, cui è stato applicato un presidio medico detto stent, proprio come si fa ad un adulto, con la sola differenza che in questo caso per farlo si è passati per una via non ordinaria: il pancione della mamma.
E’ un evento che commuove e che genera per forza stupore: se per la cultura dominante il feto non è da considerarsi “persona”: come si può considerare addirittura un “paziente”?
Ma per la medicina lo è, e questo è solo uno dei tanti interventi chirurgici di questo genere in Italia e in vari Paesi, che riescono a curare delle anomalie al cuore, ai reni, all’intestino, al sistema nervoso prima ancora che il bambino nasca; anzi, evitando che nasca prematuramente e facendolo restare un “feto” ancora per alcune settimane.
La rivista Pediatric Surgery International del maggio 2013 dà un quadro comprensivo delle possibilità in atto in questo campo e non ci si stupisce se su Seminars in Pediatric Surgery ci si preoccupa di come non far provare dolore a questo paziente ancora non nato ma che viene operato: “La chirurgia fetale spinge i limiti della conoscenza e della terapia oltre i convenzionali paradigmi trattando il feto come un paziente. Due pazienti devono essere anestetizzati nell’interesse di uno, e c’è poco margine per l’errore”, riportano gli autori dell’articolo, medici al Children’s Hospital di Philadelphia.
Sono appuntamenti importanti per il mondo ostetrico i congressi internazionali dal titolo “The fetus as a patient” (“Il feto come paziente”), così come è significativo che il sottotitolo di una delle maggiori riviste mondiali di pediatria, “Early Human Development”, sia: “Rivista che tratta la continuità tra la vita fetale e neonatale”.
Dunque per la comunità scientifica è chiaro che il feto è un paziente. Il fatto che per tutti gli altri continui ad essere trattato come un essere senza diritti, di cui qualcuno ancora discute sulla reale umanità o sul possesso di diritti, è imbarazzante.
Si sente una forzatura nella divisione artificiosa tra “feto” e “bambino” segnata dal momento convenzionale della nascita, senza che per la fisiologia e l’anatomia del soggetto la nascita in realtà abbia un significato rilevante.
Anche perché ormai ben si sa che prima di nascere il feto è in grado di ascoltare le voci (potrà dopo nato già riconoscere quella della sua mamma) e di assaporare i gusti delle cose che la mamma mangia e che attraverso il suo sangue gli arrivano alla piccola bocca, tanto che oggi sappiamo che i gusti alimentari iniziano a formarsi prima della nascita.
E il feto può sentire il dolore nella seconda metà della gravidanza, come ho recentemente illustrato riassumendo tutti i dati della letteratura scientifica sul Journal of Fetal Maternal and Neonatal Medicine.
Questo dato è stato oggetto di discussione per anni, ma anche in questo campo tanti progressi sono avvenuti, basti pensare che fino a 30 anni fa ancora in campo medico c’era chi dubitava che il bambino neonato provasse dolore; e il feto altri non è che un bambino non ancora nato (o che talora nasce prima di arrivare al termine della gravidanza). E’ una piccola umanità teneramente nascosta ma presente.
Lo sviluppo della chirurgia fetale è allora un campo controverso per il pubblico che non si aspetta che la medicina tratti da paziente un feto; ma non lo è per i medici stessi. Perché la scienza ha proprio il compito di sondare ciò che è apparentemente insondabile, cioè di essere aderente alla realtà anche quando quella realtà è così piccola (vedi il caso dell’embrione umano) o nascosta (vedi il caso del feto) da sembrare marginale o “scartabile”.
Ma una volta scoperta la realtà che altri – per pregiudizi sociali o perché mancano i mezzi tecnici – non vedono, non si può e non si deve far altro che seguire la ragione e curare il paziente, indipendentemente da apparenza e pregiudizi.