Ha scritto il celebre scrittore francese George Bernanos: «Chi cerca la verità dell’uomo deve farsi padrone del suo dolore» (in La gioia). Impresa assai difficile, perché alla scuola della sofferenza l’uomo è e sempre rimarrà un apprendista. Eppure nessuno conosce veramente se stesso, ne saprà mai, fino in fondo, farsi prossimo, finché non ha sofferto. Perché niente, più del dolore, umanizza e sviluppa le facoltà dello spirito; niente più del dolore risveglia l’uomo dal sonno spirituale in cui spesso egli si confina.
Per questo, già nell’antichità greca, si diceva: «Pathémata – Mathémata»: I dolori sono insegnamenti (Epitimio alla favola di Esopo, Il cane e il cuoco). E ancora: «La saggezza si conquista attraverso la sofferenza» (Eschilo, in Agamennone). È errato pensare che la malattia sia solo espressione dell’imperfezione dell’uomo; essa è, invece, la sua migliore forma di perfezionamento, il migliore apprendistato dell’arte di vivere, la più profonda formazione che lo spirito umano possa ricevere.
Perché c’è una permanente memoria del vivere nel dolore che soffriamo o a cui assistiamo. Una memoria che è fatta di storie, di sogni infranti, di ricordi collettivi, di piaceri, di paure, di persone care, di miserie, di immagini, di incontri. Nella sofferenza c’è tutta la grammatica dell’ordo vivendi, la più drammatica e attraente liturgia di cui ogni uomo è, in fondo, al contempo, sacerdote, altare e offerta. È un luogo sacro la sofferenza; di quelli che bisognerebbe calpestare a piedi scalzi, con timore e stupore. Un luogo sacro che, seppur separato da noi, a tutti chiede di essere ospitato, dinanzi al quale nessuno può risultare inospitale. La sofferenza denota la nostra esistenza e la nostra resistenza, il senso dell’attaccamento alla vita, il bisogno dell’altro, l’insopprimibile anelito di felicità che è già anticipo di eternità.
Certo, nessuno, vedendo una malattia, la preferisce o la desidera; ma non per questo può ignorarla, giudicarla o rigettarla come una maledizione da cui tenersi lontano. Chi elude la responsabilità verso il male, proprio o altrui, è il vero malato. La malattia è il volto contratto della faccia del mondo. Come le rughe, che avanzano con gli anni e alterano la fisionomia di un volto, così la faccia del mondo è continuamente sfregiata dalle trame del male che si muove nella storia. Scandalo è il male, ma ancora più scandalosa è una vita incurante del male, dei mali che portano l’uomo, l’umanità a soffrire senza speranza, a soffrire nella sola prospettiva della morte.
Come potrà, Cristo, farsi Signore del nostro soffrire, se dinanzi alla cattiveria dell’uomo, alle ingiustizie del tempo, all’insipienza collettiva smettiamo di fidarci dell’uomo, proprio a partire dalla sua debolezza, dalla sua incapacità di vivere il bene, dal suo scioperare quando la speranza sembra venir meno? Come potrà, Cristo, farsi Signore del nostro soffrire, se non riusciamo a gioire dell’essere al mondo, se non esistiamo agli altri, se non abbiamo coscienza della vita, proprio a partire dalla fatica del vivere? Cristo soffre per noi, cioè prende su di sé la sofferenza di tutti e la redime. Cristo soffre con noi, dandoci la possibilità di condividere con lui i nostri patimenti. É lui così ci “associa” al mistero divino: ci rende partecipi, “soci”, del miracolo di una sofferenza che non è il mezzo della nostra dannazione, ma mezzo della nostra salvezza.