«L’uomo mortale non ha che questo, di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia».
Aldo Moro vive nel tempo e nello spazio dell’eternità, cui sembrano consegnarlo le parole dello scrittore Cesare Pavese. Trentasei anni sono passati da quel giorno in cui via Fani si tinse di sangue e di morte: andava in Parlamento per la presentazione del governo di solidarietà nazionale, al quale aveva lavorato nel tentativo di ricucire coraggiosamente e profeticamente la divisione tra le due principali aree politiche e culturali del Paese: la comunista e la cattolica. Non ci arrivò mai: quel giorno, la sua scorta perse la vita, falciata dal piombo delle Brigate Rosse. Egli finì nella casa prigione di via Caetani, da dove uscì solo cadavere, il 9 maggio del 1978.
È morto Moro, non il suo insegnamento, la sua testimonianza, che anzi guadagnano attualità e valore in questo momento particolarmente delicato della vicenda storica della democrazia italiana. Contro le odierne semplificazioni e contro la fittizia e sterile contesa tra i laicisti assoluti e i clericali per forza, l’esperienza morotea dovrebbe essere se non fonte di ispirazione perlomeno spunto di riflessione. «Mio padre era convinto che in ogni persona ci fosse del buono. Cercare la giustizia oltre la condanna significa cercare quell’umanità di cui tutti siamo portatori», rammentava la figlia Agnese parlando, anni dopo, coi carnefici del padre.
È un ritratto in cui emerge la caratteristica del cristiano nella politica: la volontà di non avere idoli, di non creare atteggiamenti idolatrici, né verso la politica, né verso lo Stato, né verso il potere. Certamente è un portato della tradizione degasperiana, ma anche un dato che affiora nella lezione di Maritain, espressa nelle scelte operative. Ad esempio, il famoso discorso di Napoli del 1962, nel quale si soffermava sul rapporto tra fede e politica, che non è un rapporto d’indifferenza, perché l’autonomia non implica l’indifferenza della politica rispetto alla fede, bensì anelito alla edificazione della città terrena senza mai rinunciare ai propri valori. Infatti, restando «ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo».
Fu un uomo libero, anticonformista anche se straordinariamente all’antica nei costumi. Fu singolarmente moderno nell’apertura verso qualunque manifestazione di novità nel campo delle idee. Sottolinea Marco Follini, all’epoca suo giovanissimo collaboratore: «Era un conservatore intelligente, che dialogava con i progressisti. Trovandosi così a combattere su due fronti. Con i progressisti, che non lo sentivano come uno dei loro. E con i conservatori meno intelligenti che non gli perdonavano quello sforzo di comprensione non sempre alla loro portata».
E proprio questo, probabilmente, gli costò la vita. L’Italia, purtroppo, fu privata d’un uomo che, anticipando i tempi, cercava di contrastare con la profondità e la complessità di pensiero la fretta e l’approssimazione che avrebbero presto preso a contraddistinguere sempre più la società, non sempre pronta, oggi ad ascoltare anche le cose fondamentali.