Il prezioso dono dell’Eucarestia sotto forma sacramentale è il tema affrontato da padre Raniero Cantalamessa nella sua terza predica di Quaresima. Partendo da un excursus storico, il predicatore della Casa Pontificia identifica in Sant’Agostino, con il suo “De sacramentis”, “l’iniziatore della teologia sacramentaria”.
Prima del santo vescovo di Ippona, tuttavia, già Sant’Ambrogio aveva iniziato a trattare il tema negli scritti “Sui sacramenti” e “Sui misteri”. Secondo padre Raniero, Sant’Ambrogio “ha gettato le basi della futura dottrina della transustatazione”, contribuendo così “all’affermarsi della fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucarestia”.
A tal proposito, il predicatore cita un passaggio significativo dell’opera “Sui sacramenti” di Ambrogio. “Questo pane è pane prima delle parole sacramentali; quando interviene la consacrazione, da pane diventa carne di Cristo […] Con quali parole si compie la consacrazione e di chi sono tali parole? […] Quando si viene a compiere il venerabile sacramento, il sacerdote ormai non usa più le sue parole, ma usa le parole di Cristo. È dunque la parola di Cristo a compiere questo sacramento”.
La teologia di Sant’Ambrogio, rileva dunque padre Cantalamessa, svolse un ruolo determinante nell’opposizione all’eresia di Berengario di Tours, che riduceva la presenza di Gesù nell’Eucaristia “a una presenza solo dinamica e simbolica”.
Essa si discostava però dalla teologia di Sant’Agostino per via di una “differenza di prospettiva”. Padre Cantalamessa sintetizza la questione con le seguenti parole: “Dei tre corpi di Cristo – il corpo vero o storico di Gesù nato da Maria, il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale – Agostino unisce tra loro strettamente il secondo e il terzo, il corpo eucaristico e quello della Chiesa, distinguendoli dal corpo reale e storico di Gesù; Ambrogio unisce, anzi identifica, il primo e il secondo, cioè il corpo storico di Cristo e quello eucaristico, distinguendoli dal terzo, cioè dal corpo ecclesiale”.
La prospettiva di Ambrogio cela un rischio, che padre Cantalamessa definisce “un realismo esagerato”, quasi che – per citare una formula che si contrapponeva all’eresia di Berengario – il corpo e il sangue di Cristo fossero presenti sull’altare “sensibilmente e venissero, in verità, toccati e spezzati dalle mani del sacerdote e masticati dai denti dei fedeli”. Il rimedio a tale rischio è la consapevolezza che “quella eucaristica non è una presenza fisica, ma sacramentale, mediata da segni che sono, appunto, il pane e il vino”.
Il predicatore pontificio individua poi “un limite” nella visione di Ambrogio, ossia “l’assenza di ogni riferimento all’azione dello Spirito Santo nella produzione di Cristo sull’altare”. Per Sant’Ambrogio, infatti, tutta “l’efficacia risiede nelle parole della consacrazione”, parole che “non si limitano ad affermare una realtà esistente, ma producono la realtà che significano, come la frase ‘fiat lux’ della creazione”.
Questo, secondo padre Cantalamessa, ha influito nello scarso rilievo che ha avuto nella liturgia latina l’invocazione dello Spirito Santo, “che svolge invece nelle liturgie orientali un ruolo essenziale quanto quello delle parole della consacrazione”. L’opinione di padre Cantalamessa è che sarebbe stato bene, al momento di tradurre il Canone romano nelle lingue moderne, riportare esplicitamente la frase “Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza del tuo Santo Spirito”, anziché nella prassi corrente: “Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza della tua benedizione”.
La “lacuna più grande” che tuttavia rileva padre Cantalamessa non riguarda solo Sant’Ambrogio e neppure solo i Padri latini, bensì “la spiegazione del mistero eucaristico nel suo insieme”. Il riferimento è all’accentuazione delle differenze tra Cristianesimo ed Ebraismo, che è sfociato finanche in contrapposizioni per via di “diversi fattori storici”. Una frequente accusa rivolta agli eretici – rammenta padre Cantalamessa a proposito dei cristiani delle origini – era pertanto quella di “giudaizzare”.
Il predicatore ricorda invece che “come non si capisce la Pasqua cristiana se non la si considera come il compimento di quello che la Pasqua ebraica preannunciava, così non si capisce a fondo l’Eucaristia se non la si vede come il compimento di quello che gli ebrei facevano e dicevano nel corso del loro pasto rituale”.
Un testo utile a comprendere lo stretto legame tra la liturgia giudaica e la cena cristiana è la Didachè. Al suo interno, rileva padre Cantalamessa, vi è una raccolta di preghiere della sinagoga “con l’aggiunta, qua e là, delle parole per il tuo servitore Gesù Cristo”. Il rito sinagogale era composto da una serie di preghiere chiamate “berakah”, che in greco viene tradotto con “Eucarestia”.
Del resto, “il rito seguito da Gesù nell’istituire l’Eucarestia accompagnava tutti i pasti degli Ebrei, ma assumeva un’importanza particolare nei pasti in famiglia o in comunità il sabato e i giorni festivi”. Durante la famosa Ultima cena, Gesù introduce però qualcosa di decisivo, che Luca indica con le seguenti parole attribuite a Gesù stesso: “Questo calice è la nuova Alleanza nel mio Sangue che è sparso per voi”. È il momento in cui il Salvatore “offre e stringe con i suoi la nuova ed eterna Alleanza nel suo Sangue”.
“Aggiungendo le parole ‘fate questo in memoria di me’ – spiega padre Cantalamessa – Gesù conferisce una portata sconfinata al suo dono. Dal passato, lo sguardo si proietta verso il futuro. Tutto quanto egli ha fatto finora nella cena è messo nelle nostre mani. Ripetendo quello che lui ha fatto, si rinnova quell’atto centrale della storia umana che è la sua morte per il mondo”.
Quel memoriale che “finora era il pegno della fedeltà di Dio a Israele”, ora è il “corpo spezzato e il sangue versato del Figlio di Dio; è il sacrificio del Calvario ‘ri-presentato’ (cioè reso nuovamente presente) per sempre e per tutti”. È in questo passaggio – prosegue padre Cantalamessa – che si scopre “la preziosità dell’insistenza di Ambrogio” sulla presenza “vera, reale e sostanziale di Cristo” nell’Eucaristia.
Infine il predicatore si serve di un esempio umano per spiegare cosa avviene nell’Eucaristia. È come un figlio primogenito che – spiega -, amando smisuratamente il proprio padre, decide di comprargli un regalo cui fa apporre, in segreto, la firma di tutti gli altri fratelli. Pertanto, “questo arriva nelle mani del padre come segno dell’amore di tutti i suoi figli, indistintamente, anche se, in realtà, uno solo ha pagato il prezzo di esso”.
Nella Messa – prosegue – Gesù ci invita tutti ad “apporre la nostra firma” al dono, simboleggiata dalle poche gocce di acqua mescolate al vino nel calice e da quell’Amen pronunciato al momento della comunione. La firma – conclude padre Raniero – implica un impegno. Pertanto, “dobbiamo fare anche noi della nostra vita un dono d’amore al Padre e per i fratelli”.