L’esodo dei cristiani dalla Siria e dall’Iraq sarà purtroppo un fatto definitivo. Ne è convinto Domenico Quirico, l’inviato del quotidiano La Stampa, sequestrato dai ribelli siriani nei pressi di Al Qusayr l’8 aprile 2013 e liberato l’8 settembre dello stesso anno. Cinque mesi di terrore, al termine dei quali il giornalista affermò di aver “visto l’inferno” e in cui più volte temette concretamente di essere ucciso.
Relatore all’incontro conclusivo del Meeting di Rimini, tenutosi ieri pomeriggio sul tema Testimoni di libertà, interamente dedicato al dramma del Medio Oriente, Quirico ha ribadito le sue radicali opinioni in merito, denunciando in particolare i gravissimi errori dell’Occidente.
A colloquio con ZENIT, l’inviato speciale della Stampa ha manifestato il proprio desiderio di tornare in Siria, sia pure a titolo personale, confidando anche quanto sia difficile perdonare i propri sequestratori. La via della rinuncia all’odio, tuttavia, ha precisato, è l’unica strada possibile.
Lei è venuto al Meeting di Rimini per testimoniare sulla libertà religiosa…
…o meglio sulla illibertà religiosa! Ho portato la testimonianza del fatto che nel Vicino Oriente, dove il cristianesimo è nato, tra sei mesi o un anno molto probabilmente non ci sarà più nemmeno un cristiano. In Iraq, dai circa quattro milioni del 2002, oggi i cristiani sono scesi a 400mila, oltretutto tutti fuggiaschi: nessuno resterà lì. Certo, non è la prima volta che i cristiani vengono braccati, perseguitati, cacciati dalle loro case, tuttavia in precedenza erano sempre tornati. Stavolta però non torneranno più, perché il fenomeno che si sta verificando in quella zona del mondo è un’entità nuova, molto più complessa e pericolosa delle pur terribili cose accadute in passato, quindi i cristiani non hanno più il coraggio di fuggire un’altra volta e ritornare. Si è quindi conclusa la storia di una parte essenziale del cristianesimo in quella zona.
A distanza di un anno, l’esperienza del sequestro le brucia ancora? È riuscito a perdonare i suoi aguzzini?
La parola “perdono” è una parola molto complicata e molto difficile da rispettare, per cui il perdono è qualcosa che, per certi versi, richiede la santità e io – ahimè – non mi sento un santo ma un comunissimo mortale. Se, però, io provassi odio per coloro che mi hanno tenuto a casa loro per un po’ di tempo, sarei forzatamente legato a quelle persone e il mio sequestro continuerebbe all’infinito. L’unico modo per chiudere quella vicenda è che io non provi ostilità o odio nei confronti di queste persone. Solo in questo modo io posso tagliare i ponti con questa vicenda della mia vita. Più che una scelta, dunque, non odiare è una necessità.
Dopo quello che le è accaduto, ha intenzione di tornare in Siria?
In Siria ci tornerei anche domattina se qualcuno mi ci mandasse! Il problema è che nessuno mi ci vuole più mandare… Ci tornerò per i fatti miei, come “turista”. Probabilmente ai giornali non interessa più mandarmi lì, per motivi che non sto ad elencare. Io però vorrei tornare in Siria: anche da un punto di vista personale, tornarci è qualcosa di necessario. Vorrà dire che invece che un reportage giornalistico, scriverò una cartolina…
Consiglierebbe mai a un giovane reporter in erba di fare l’inviato di guerra?
A un giovane giornalista, consiglierei semplicemente di fare una cosa elementare: andare a vedere le cose che raccontano, sia che esse avvengano in Siria o che avvengano alla periferia di Bologna o a New York. Per raccontare i problemi dell’uomo non è necessario andare agli antipodi: si può andare alla periferia o al centro di qualsiasi città. Prima di scrivere, andare a vedere: questa è una regola semplicissima, se la si rispetta si fa un buon giornalismo, altrimenti si fa qualcosa che con il giornalismo non c’entra nulla. Se poi quello che bisogna vedere accade in Svizzera, si va lì, altrimenti si va in Siria, a Napoli o altrove.