In alcune aree del mondo, ed in particolare in Medio Oriente, si manifestano fattori di gravissima instabilità. In molti casi, un rozzo radicalismo si unisce a pratiche di violenza e di intolleranza che sembravano essere relegate negli archivi della storia.
In questo contesto già di per sé critico, l'errore più grave che potremmo compiere sarebbe quello di rappresentare queste crisi in termini di guerra di religione. In realtà, è la storia ad insegnarci che le guerre più devastanti e i conflitti più cruenti hanno avuto luogo per ragioni che non hanno nulla a che fare con la religione.
Il militarismo, l'egemonia economica, l'intolleranza a tutti i livelli sono cause di conflitto unitamente a tanti altri fattori sociali e culturali di cui la religione costituisce solo una componente. Tutto ciò ha molto a che vedere con le consuete ricette del dominio di oligarchie e della prevalenza di strutture improntate alla cultura bellica.
Da ogni punto di vista, in questi casi si dovrebbe parlare non tanto di guerre di religione ma, più concretamente, realisticamente e prosaicamente, di religione della guerra.
E’ la guerra in quanto tale, senza alcuna aggettivazione, a costituire un relitto della storia, una pratica barbara da abbandonare, una “istituzione” che ha dimostrato di essere fallimentare se pensata come un “praticabile” strumento politico o sociale.
Chiara Lubich affermava con grande lucidità e saggezza, indicando un cammino di unità pur pienamente consapevole delle criticità mondiali, che “è finito il tempo delle ‘guerre sante’. La guerra non è mai santa, e non lo è mai stata. Dio non la vuole. Solo la pace è veramente santa, perché Dio stesso è la pace.”
In questo contesto le implicazioni politiche della paura e la domanda di sicurezza sono centrali nella politica internazionale. Ma quale sicurezza?
In realtà, nella globalizzazione della nozione di sicurezza può essere ricondotta ad una sua radicale ri-concettualizzazione, che comporta, da un lato, un più diretto rapporto con la dimensione sociale e individuale, dall’altro, la consapevolezza della sua ramificazione in molteplici ambiti.
Si tratta del tema della sicurezza umana, ben più ampia del concetto di difesa dalle minacce militari o para-militari. Una sicurezza che trovi il suo punto focale sui legami comunitari, ma aperti e in un atteggiamento di dialogo, di capacità di sintesi, pur nella distinzione
L’impressione è che ci siamo concentrati su uno stucchevole dibattito sullo “scontro di civiltà” e non abbiamo affrontato per tempo i “nodi della civiltà”, vale a dire le grandi incongruenze globali come le sperequazioni economiche a livello mondiale (e all’interno degli Stati), il cambiamento climatico, il grande tema bio-politico delle risorse alimentari e idriche e delle malattie endemiche. Ci siamo interrogati a lungo se il mondo fosse diventato unipolare, multipolare, unipolare o interpolare.
Ci troviamo nella frattura dal passaggio da un ordine egemonico liberale guidato dall’Occidente una situazione che Charles Kupchan, professore di Affari Internazionali della Georgetown University ha efficacemente definito come “No one’s world” il mondo di nessuno.
E’ necessaria una più matura ed ampia riflessione sugli assetti mondiali a partire da alcune questioni-chiave e sulle prospettive di una logica compaginativa delle relazioni internazionali in quella temperie storica che ormai potrebbe definirsi in termini di post-globalità.
Quest’ultima si caratterizza con i fenomeni di crescente opposizione o resistenza alla mondializzazione dell’economia capitalista e alla generalizzazione del canone liberal-democratico, di mitologia localista e sindrome identitaria, di assolutizzazione di visioni del mondo parziali ed escludenti, ma al contempo nutre l’aspirazione a prospettare un modello alternativo (forse meno “globalista”) di interazione dialogica, sviluppo integrale e cooperazione strutturata e paritaria, più concretamente universalista e autenticamente pluralista.
C’è bisogno di un nuovo progetto politico internazionale, un new deal globale, una nuova alleanza più inclusiva e paritaria, che vada ben oltre le alleanze militari ed economiche esistenti.
Seguendo Chiara Lubich, la domanda che ci si pone è se sia davvero possibile vivere in un mondo di popoli liberi, uguali, uniti, non solo rispettosi l’uno dell’identità dell’altro, ma anche solleciti alle rispettive necessità.
La risposta – ne è sicura Chiara Lubich - è una sola: non solo è possibile, ma è l’essenza del progetto politico dell’umanità.
È l’unità dei popoli, nel rispetto delle mille identità, il fine stesso della politica, che la violenza terroristica, la guerra, l’ingiusta ripartizione delle risorse nel mondo e le disuguaglianze sociali e culturali sembrano oggi mettere in discussione.
Sono questi i tempi in cui ogni popolo deve oltrepassare il proprio confine e guardare al di là, fino ad amare la patria altrui come la propria. Bisogna rimettere in moto la pace non come un’idea accanto alle altre, ma come l’idea fondamentale della convivenza tra gli uomini.
Non è per nulla un progetto utopico: basti guardare allo stato del mondo per comprendere che non solo è realistico, ma anche urgente e necessario.
Pasquale Ferrara è Segretario Generale dell'Istituto Universitario Europeo a Fiesole