Quando si parla di preghiera, non di rado si ha l’impressione di voler imparare una nuova arte o un esotico esercizio. In realtà, i grandi maestri spirituali della storia cristiana hanno sempre insegnato che la preghiera è il nostro status naturale. Jean Lafrance, ad esempio, apre il suo libro La preghiera del cuore, edito da Qiqajon, con questa domanda: «Hai mai sorpreso il tuo cuore in flagrante mentre sta pregando?». La domanda del grande maestro del Novecento non si rivolge soltanto a monaci con carismi particolari, ma a ogni persona. Lafrance riporta, infatti, la confidenza di una madre di famiglia che gli racconta di «improvvise “vampate di preghiera” nel bel mezzo dei lavori domestici».
Imparare a pregare è risuscitarci alla vita trinitaria sepolta nei nostri cuori. Questa preghiera – l’equivalente della “preghiera del cuore” per Lafrance – cerca le sue sorgenti, non in tecniche esotiche o esoteriche, ma «nel profondo del nostro essere, al di là dell’intelletto, della volontà, dei sentimenti e anche delle tecniche di preghiera». La sua convinzione di fondo è che finché cercheremo di far nascere la preghiera a partire dalla dimensione del fare e dall’esteriorità, non coglieremo mai a pregare in verità e in continuità. Il primo passo verso la preghiera, allora, è scoprire «l’uomo nascosto nel profondo del cuore» (1Pt 3,4) e far emergere allo stato di coscienza la preghiera sommersa, la preghiera che si traduce nel quotidiano in desiderio ma anche in insoddisfazione, in gioia ma anche in inspiegabile mestizia.
La natura stessa della preghiera del cuore implica che non è una pratica che si possa imparare. Essa è piuttosto un istinto da riscoprire. È un decentramento che ci fa scoprire il nostro vero cuore. Uno dei grandi danni che facciamo alla nostra esistenza è sommergerla in una dimenticanza e in una distrazione che diventano un modo di essere abituale. Superare la distrazione dell’esistenza è già iniziare a entrare nell’esperienza della preghiera.
L’esperienza della preghiera si avvicina all’esperienza d’innamoramento, a quella fase dove l’incontro con l’altro si fa ascolto e desiderio di conoscere la persona, la personalità e la volontà dell’altro. Imparare ad ascoltare è parte del processo di riscoperta della preghiera. Insegna al riguardo Kierkegaard che «la vera situazione della preghiera non è quando Dio sta ad ascoltare ciò che noi gli domandiamo, ma quando l’orante persevera a pregare fino a che sia egli colui che ascolta, che ascolta ciò che Dio vuole… Il vero orante sta puramente in ascolto».
Questo ascolto non è passività, ma è un fiducioso rassegnarsi all’opera di Dio in noi e tramite noi che ci vede come graziosi collaboratori della grandezza di Dio. In questo senso è una conversione «passivamente attiva» perché «è una grazia che si riversa su di noi, una luce imprevista e imprevedibile alla quale ci si lascia penetrare fino alla divisione dell’anima e dello spirito». È una rivoluzione copernicana perché il mondo smette di girare attorno all’io – collettivo o individuale – e comincia a ruotare attorno a Dio e agli altri.
Il ritorno alla preghiera afferma la vera natura dell’uomo, lo trasforma in quello che deve essere. La preghiera diventa sempre più continua perché trascende il semplice gesto del fare e inizia ad essere vita e contagioso essere perché l’uomo è fatto «per il volto, per il sorriso e per la comunione». Una modalità d’essere che i bambini ci ricordano di continuo attraverso il loro atteggiamento spontaneo e naturale di guardare, ammirare e contemplare.