Il sentimento mariano nella poesia

Una puntata in preparazione alla Solennità dell’Immacolata

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L’8 dicembre è il giorno dell’Immacolata Concezione. Festa mariana per eccellenza che celebra il mistero di Maria: unica donna concepita in assenza di peccato originale, figura umana in grado di accogliere il divino. Una figura plasmata dall’umiltà, dalla povertà, dalla debolezza. “Davanti all’annuncio dell’Angelo, Maria non nasconde la sua meraviglia” spiega Papa Francesco in una sua omelia. “È lo stupore di vedere che Dio, per farsi uomo, ha scelto proprio lei, una semplice ragazza di Nazaret…”.

Il dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria è storicamente legato alle apparizioni mariane. Tra le più celebri, quelle di Guadalupe (Messico, 1531), Lourdes (Francia, 1858) e Fatima (Portogallo, 1917). Mentre in tempi più recenti è divenuta oggetto di ininterrotto pellegrinaggio la Madonna di Medugorje, che apparve per la prima volta ai veggenti il 24 giugno 1981.

Se a ciò si aggiunge che l’archetipo di femminilità di Maria si ricollega alla grandezza della maternità umana quale custode del soffio generativo che pervade il Creato, possiamo ben comprendere come la devozione mariana costituisca una presenza costante nell’arte, nella letteratura e nella musica. Un simbolo universale che si avvale di molteplici apporti culturali e che ha nutrito l’humus meditativo di poeti ed artisti.

Per restare nel campo della parola scritta, numerosi sono gli autori che privilegiano l’incidenza e l’ascolto di quanto attiene alla dimensione del trascendente e del sacro. E tuttavia sarebbe impossibile circoscrivere il sentimento poetico all’interno di canoni codificati. La relazione di una persona col sacro è qualcosa di unico che rispecchia, in qualche misura, la sua identità individuale. La fede non è un rituale di formule, ma un continuo atteggiarsi del pensiero di fronte a Dio: “La fede, se non è pensata, è nulla” scriveva Sant’Agostino.

Per illustrare questa “tavolozza di colori”, questa varietà semantica che reinterpreta il sentimento mariano alla luce di un fare poetico caratterizzato da sfumature diverse, abbiamo scelto quattro poesie: tre componimenti appartenenti ad autori storicizzati ed un’opera di anonimo (un’opera che i nostri lettori, forse, non si aspetteranno…).

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La prima poesia è di Giuseppe Jovine, una delle voci liriche più alte del secondo ‘900. Poeta originario del Molise, una regione oppressa da dolorose vicende storiche, nell’opera letteraria di Jovine si avverte un anelito al riscatto sociale che si risolve in afflato religioso. La poesia qui presentata, Nostra Madonna di Borrana (Il canto dell’emigrante), è dedicata alla processione della “Madonna della Salute”, che il paese di Castelmauro (borgo natio del poeta) celebra ogni anno dal 7 al 10 settembre. In quell’occasione l’antico paese, terra d’emigrazione, torna a popolarsi per qualche giorno e, intorno alla statua della Madonna, si raccoglie la comunità intera (“al Tuo soglio verremo col nostro corpo pieno di cicatrici e lividure / ma Ti rendiamo l’anima pulita / come un’acqua bianca di sorgiva”).

NOSTRA MADONNA DI BORRANA

(Il canto dell’emigrante)

di Giuseppe Jovine

Madonna, Tu ritorni al nostro villaggio dal convento che veglia i nostri
morti, quando le quaglie volano tra gli orzi,
e tutti tornano a Borrana.
Tornano i vivi e tornano i morti, e i vivi e i morti ti fanno da scorta
tra suoni di trombe e luci di bengala.
Ecco nostra Madonna di Borrana torniamo alla poesia della capanna,
dopo l’orgia dei folli grattacieli, delle cupole pari alle colline
e il suon delle sirene scorderemo,
ci sveglieremo all’alba al suon delle campane, ogni morte e ogni nascita
udremo salutare da un rintocco,
qui sarà dolce vivere e morire.
Sulle montagne e nei boschi d’abete il legno prenderemo per le bare,
e nelle valli il vino per la messa,
porteremo il grano nei sepolcri,
il farro, l’uva, il miele in processione
e dinanzi all’altare Madonna
ascolterai la voce di coloro che si portano dentro pel mondo il tuo paese.
Oggi la nostra patria è questa valle,
all’ombra dell’antico campanile.
Qui resteremo Madonna appagati
lucideremo il rame sulle soglie con la rena gialla ed il sambuco,
l’appenderemo alle pareti per chiamare il sole nelle stanze.
E quando sarà venuta l’ora nostra,
se udienza ci darai e perdonanza
Madonna, col Tuo nome sulle labbra
e negli occhi il colore azzurrino del Tuo manto
al Tuo soglio verremo col nostro corpo pieno di cicatrici e lividure
ma Ti rendiamo l’anima pulita
come un’acqua bianca di sorgiva.

Giuseppe Jovine (1922 – 1998) mantenne sempre un forte legame con la sua Terra di Molise. Tra le sue opere più importanti, vanno ricordati i volumi di poesie in dialetto molisano “Lu Pavone” (1970) e “Chi sa se passa u’Patraterne” (1992) e l’antologia di versi in lingua “Tra il Biferno e la Moscova” (1975). A cura del figlio Carlo Jovine, sono stati pubblicati postumi il volume di poesie “Viaggio d’inverno” (1999) e il volume di racconti “Gente alla Balduina” (2005).

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La seconda poesia è intimamente connessa alla musica. Si tratta infatti di un testo musicale legato all’interpretazione di un grande cantautore. “Fabrizio De Andrè – scrive un suo appassionato esegeta – era un segreto, un sussurro, un messaggio in bottiglia per pochi eletti; che in breve diventarono decine di migliaia e poi anche di più, ma senza richiami mediatici, senza gli strilli dei concerti, solo con il tam tam antico e ineffabile del passaparola”. Non vogliamo aggiungere altro se non un consiglio ai nostri lettori. Dopo aver letto il testo ed averlo apprezzato nel suo valore poetico, andate su YouTube ed ascoltatelo dalla viva voce del grande “Faber” (pseudonimo di De Andrè). Poi, se ne avete voglia, scriveteci le vostre impressioni…

AVE MARIA

di Fabrizio De André

E te ne vai, Maria, fra l’altra gente
che si raccoglie intorno al Tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male,
nella stagione di essere madre.
Sai che fra un’ora forse piangerai
poi la Tua mano nasconderà un sorriso:
gioia e dolore hanno il confine incerto,
nella stagione che illumina il viso.
Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come Te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore,
povero o ricco, umile o Messia.
Femmine un giorno e poi madri per sempre,
nella stagione che stagioni non sente.

Fabrizio De André (1940-1999). Ecco una breve nota biografica scritta di suo pugno: “Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile. Ho più della mia età, ho avuto tempi di invecchiamento più corti della media, forse perché non ho mai rifiutato nessun tipo di esperienza. Ho sempre impostato la mia vita in modo da morire con trecentomila rimorsi e nemmeno un rimpianto”.

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E adesso cambiamo totalmente genere e atmosfera. Con Carlo Alberto Salustri, universalmente noto col nome di “Trilussa”. La dialettalità, diceva Pirandello, è vera creazione di forma. E quando il dialetto, come nel caso di Trilussa, è avvalorato da una vitalità espressiva che crea una tradizione letteraria, si deve parlare di lingua vera e propria. La provincia dialettale è una metafora dell’universo, un mezzo di mediazione col mondo, e il poeta dialettale effettua una fusione espressiva tra modi popolari e modi colti.

ALLA MADONNA

di Carlo Alberto Salustri (Trilussa)

Qann’ero ragazzino,
mamma mia me diceva:
Ricordati, fijolo,
quanno te senti ve
ramente solo
tu prova a recità n’Ave Maria.
L’anima tua da sola spicca er volo
e se solleva, come pe’ magìa.
Ormai so’ vecchio, er tempo m’è volato;
da un pezzo s’è addormita la vecchietta,
ma quer consijo nun l’ho mai scordato.
Come me sento veramente solo,
io prego la Madonna benedetta
e l’anima da sola pija er volo!

Trilussa. Pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri (1871-1950). L’acuto senso di osservazione del poeta dialettale si concentra sulla cronaca quotidiana della Roma piccolo-borghese. Con la capacità di tipizzare le situazioni attraverso figure e macchiette caratterizzate da uno spirito caustico e, al tempo stesso, divertito. Principali raccolte poetiche: “Quaranta sonetti romaneschi” (1895), “Ommini e bestie” (1914), “Lupi e agnelli” (1919).

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L’ultima poesia è l’opera di… un bambino! Non è dato di conoscerne il nome ma la purezza cristallina dell’ispirazione rivela l’appartenenza generazionale.

Questi versi c’invitano a meditare sull’affascinante rapporto fra la poesia e il mondo dell’infanzia. Ci sono bambini che riescono a tradurre le loro emozioni in parole dotate di vitalità poetica. E non c’è nessun maestro ad insegnarlo. Perché la poesia non è, e non può essere, materia d’insegnamento. La poesia è un momento magico in cui i pensieri dentro di noi prendono forma di parole, rivelando la loro natura più autentica. Un esperimento dell’anima dove i bambini diventano un po’ adulti e gli adulti tornano un po’ bambini.

OH MADONNINA

(Preghiera anonima di un bambino)

Oh Madonnina
dall’azzurro manto,
sorridi e ascolta
il piccolo mio canto.
Con le tue bianche mani benedici
i buoni e i tristi
che non son felici.
Proteggi il babbo, la mamma
e casa mia
Oh dolce Pia
Oh Vergine Maria.

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I poeti interessati a pubblicare le loro opere nella rubrica di poesia di ZENIT, possono inviare i testi all’indirizzo email: poesia@zenit.org

I testi dovranno essere accompagnati dai dati personali dell’autore (nome, cognome, data di nascita, città di residenza) e da una breve nota biografica.

Le opere da pubblicare saranno scelte a cura della Redazione, privilegiando la qualità espressiva e la coerenza con la linea editoriale della testata.

Inviando le loro opere alla Redazione di ZENIT, gli autori acconsentono implicitamente alla pubblicazione sulla testata senza nulla a pretendere a titolo di diritto d’autore.

Qualora i componimenti poetici fossero troppo lunghi per l’integrale pubblicazione, ZENIT si riserva di pubblicarne un estratto.

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Massimo Nardi

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