“Come fecero i nostri genitori a vivere la loro realtà di coppia sposata che ha accompagnato noi al punto in cui siamo giunti oggi, uniti a nostra volta in un matrimonio vissuto nella fede?”.
È la domanda con la quale i due coniugi Jeff e Alice Heinzen, provenienti dagli Stati Uniti e impegnati entrambi nell’Istituto per il Matrimonio e la Vita Familiare della diocesi di La Crosse, hanno aperto ieri la loro testimonianza durante la quarta Congregazione generale del Sinodo straordinario della famiglia intitolata La pastorale della famiglia: le varie proposte in atto.
“Mio marito ed io ci siamo resi conto che i nostri genitori hanno rivelato nelle loro azioni quotidiane l’immagine di Dio all’interno del matrimonio e della famiglia”: così i due coniugi hanno raccontato i momenti di condivisione all’interno delle loro famiglie, i ricordi della partecipazione alle processioni del Corpus Domini nel loro quartiere, l’immagine del papà che la mattina presto si recava a messa prima di andare al lavoro, i rosari insieme nel mese di maggio.
“Ricordiamo i teneri baci che i nostri genitori si scambiavano frequentemente, la preghiera della sera per invocare la benedizione del Signore su tutta la famiglia; e poi le nostre mamme che ci esortavano a mettere da parte qualche soldo per aiutare quelli che erano meno fortunati di noi”.
“La testimonianza dei nostri genitori della bellezza del piano di Dio è stata fedele”, ammettono i due sposi mentre riflettono che nella loro esperienza pastorale conoscono moltissimi giovani che non hanno mai sperimentato questo amore sponsale, provenendo da situazioni di divorzio o essendo nati da gravidanze extramatrimoniali.
Se, come affermava Giovanni Paolo II, il ruolo educativo dei genitori è talmente decisivo che nulla potrebbe riparare il loro fallimento in questo, e le ricerche scientifiche confermano che i bambini che non hanno conosciuto un clima familiare di amore e di fede faticheranno a credere in Dio e nel loro prossimo, la domanda che sorge spontanea è: “come questi bambini potranno creare dei legami che durino tutta la vita?”.
I coniugi Heinzen confermano che, non diversamente dalle altre diocesi, anche la loro diocesi negli Stati Uniti è stata testimone del crollo del numero dei matrimoni e dei battesimi a fronte dell’aumento delle convivenze; sono innumerevoli ormai gli adulti divorziati che sono entrati a far parte di nuove comunità religiose, poiché non si sentono accolti dalla Chiesa cattolica.
“Per questo - dicono i due sposi - stiamo cercando di trovare mezzi più efficaci per condividere le benedizioni che il Signore riversa all’interno della realtà del matrimonio e della famiglia”. Infatti per loro non è una questione di “crisi di verità” quella che caratterizza il nostro tempo, ma di “crisi di metodologia”: si tratta di trovare, come Chiesa, “il modo di trasmettere in modo efficace ciò che già sappiamo essere vero”, di ricominciare a mostrare cioè che “il matrimonio è un dono di Dio, non un istituzione fatta dalle mani dell’uomo”.
Occorre esaminare seriamente “il modo in cui insegniamo ai bambini la natura della sessualità dell’uomo e la vocazione al matrimonio”. Inoltre, “quando parliamo della chiamata di Dio a servire, il matrimonio dovrebbe essere incluso in ogni programma che si propone di discernere le vocazioni”. Siamo inoltre chiamati a chiederci come “prenderci cura delle coppie dopo il matrimonio per aiutarle ad approfondire la loro relazione”.
I due coniugi hanno concluso la propria testimonianza invitando a ricordare sempre che “nulla è impossibile a Dio” e ad avere fiducia in questo Sinodo che, attraverso l’ascolto dello Spirito Santo, potrà essere di aiuto a tanti mariti, mogli e famiglie.
Stamattina, durante la quinta Congregazione generale è stata la volta della testimonianza di una coppia interreligiosa.
“Cinquantadue anni di vita insieme nella tolleranza, nel rispetto reciproco del nostro diverso credo religioso, nel sostegno l’uno dell’altra, nell’educazione cristiana dei nostri figli (tutti battezzati in chiesa, e questo con l’accordo di mio marito). Tutto questo accogliendo le gioie ricevute dal Signore e conservando molta speranza nel mezzo delle difficoltà”.
A parlare è Jeannette Touré, Presidente Nazionale dell’Associazione Donne Cattoliche della Costa d’Avorio, sposata con un musulmano. Da questa unione sono nati cinque figli e sei nipoti ai quali loro “hanno inculcato il valore del rispetto dell’altro nella differenza, e ai quali hanno trasmesso la fede”.
Lei racconta così la sua esperienza del matrimonio pensando al marito: “Grazie al mio sposo, che ha accettato che i nostri figli fossero cattolici. Anche loro ora si fanno portatori della Buona novella alle persone intorno”.
La famiglia, che a immagine e somiglianza di Dio, è infatti per propria natura annunciatrice del messaggio di salvezza attraverso la sua testimonianza di vita, e lo è in modo molto concreto in Costa d’Avorio, come emerge dalle parole della signora Tourè: “In modo particolare la famiglia africana ha il dovere di testimoniare la propria fede nel suo contesto e nella sua comunità: la nostra scelta e la nostra decisione devono aiutare la nostra comunità a conoscere meglio e amare Dio”.
Riguardo alla sessione del Sinodo, che questa mattina è stata dedicata alle sfide pastorali sulla famiglia, la presidente ha espresso l’augurio che gli sposi ritornino alla propria missione, ricordando che la famiglia è “l’unico luogo in cui si possa essere sé stessi togliendosi ogni maschera senza essere giudicati, il luogo in cui si apprende a credere in sé stessi sotto lo sguardo amorevole e lucido che i genitori dovrebbero avere sui propri figli, il luogo dove si vive l’amore nel quotidiano, si sfugge alla solitudine, si impara a condividere”.
Per la costruzione di una famiglia è necessario “lanciare una sfida al tempo per abbracciare la decisione di vivere la fedeltà”, c’è bisogno di “un patto basato su un amore che non guarda indietro e che si afferri a tutti gli strumenti a disposizione per rimanere fedele, smettendo di pensare alla propria sola realizzazione”.
“Le famiglie dai contorni imprecisi dove ciascuno fa ciò che vuole non vanno molto lontano, secondo la signora Tauré, così come neppure le famiglie ‘totalitarie’, cioè quelle che si isolano pensando di bastare a sé stesse: “si tratta” di fare il contrario, “di impegnarsi a servizio della città, di entrare nelle associazioni, di entrare in relazione con Dio”.