Un fatto storico: ieri pomeriggio per la prima volta la relazione sul tema del Meeting di Rimini è stata tenuta da un non cattolico. L’ucraino Aleksandr Filonenko, di fede ortodossa, fisico nucleare e professore di Filosofia all’Università di Char’kov, ha riflettuto sul tema Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo mettendo in luce i numerosi punti in comune tra la cultura della sua chiesa d’appartenenza e il carisma di don Luigi Giussani.

Il fondatore di Comunione e Liberazione, infatti, come sottolineato dalla presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, aveva avuto l’intuizione di rilevare “la profondità dell’esperienza di comunione e la consapevolezza della centralità di Cristo di questi nostri fratelli (ortodossi, ndr)”.

Da parte sua, il professor Filonenko, ha esordito spiegando come questi ultimi anni siano stati segnati dal passaggio dall’uomo dell’ideologia all’uomo delle “periferie”, intese non in senso geografico, quanto come il luogo dove “Gesù ci fa incontro”, e tale incontro è ciò che “ci rende vivi”.

Sottolineando l’assonanza etimologica tra la parola “periferia” e il nome del proprio paese (“Ucraina” significa letteralmente “ciò che sta in periferia”), Filonenko vede nella periferia il luogo della “riscoperta della persona”, dell’uscita dalla propria solitudine e dall’ingresso nell’universalità, che peraltro è l’attributo proprio della Chiesa Cattolica.

L’uomo delle periferie è un “uomo che mendica”, che riconosce la propria vulnerabilità, che è paziente e che sa chiedere a Dio - come fa San Paolo – “il coraggio della debolezza” e “la libertà dalla paura”.

Alle periferie dell’esistenza si incontra un uomo che si può “vantare delle proprie tribolazioni” nella misura in cui è consapevole che “dietro ogni tempesta c’è Cristo”.

C’è poi l’aspetto fondamentale della gratitudine e della lode a Dio, la cui espressione più sublime è il canto. Citando lo pseudo-Dionigi Areopagita, il filosofo ucraino ha definito il canto – o meglio l’inno – come la “prima forma di teologia”: un fatto tanto più significativo se inquadrato nel contesto di una “società in cui si canta sempre di meno”. Il canto, infatti, non nasce come “arte” ma proprio come “discorso su Dio”. Al punto che “se non cantiamo, i nostri discorsi sono solo parole”.

L’esperienza di Aleksandr Filonenko va tuttavia inquadrata con gli occhi del cristiano dell’Est, colui che, più di altri, è stato testimone dell’uscita dall’utopia: nel caso specifico dell’utopia comunista, ha sottolineato il relatore, non abbiamo a che vedere con un sogno irrealizzato ma, purtroppo, con un incubo diventato realtà.

E dalle strettoie dell’utopismo si può uscire solo se consapevoli del proprio essere periferici rispetto alla centralità della Presenza, di quel lampo che rivela i nostri veri volti.

Chiave di volta è quindi l’incontro con l’Altro e qui emerge un'altra sorprendente simmetria semantica slava: in serbo la parola “incontro” significa “gioia”.

Dopo l’uscita dall’impasse del nazifascismo e quella, più recente dal comunismo, l’Europa dovrà affrontare un “nuovo inizio”, un terzo passaggio epocale, in cui l’uomo “si ritrova persona” e diventa tale “in forza dell’incontro”.

La metafora del medicante – così cara a don Giussani e a San Giovanni Paolo II – è ripresa anche dal meno noto metropolita Antonij che afferma: “Dobbiamo accettare di essere solo quello che fu Cristo nella sua manifesta umanità: vulnerabile, indifeso”. La stessa vulnerabilità riscontrata negli ucraini scesi in piazza a Kiev nei giorni del Maidan, anche loro al crinale della liberazione dalla propria paura.

C’è un’ultima ma non meno importante dimensione che inquadra l’uomo delle periferie di questo secolo ed è quella della festa, perché “festeggiando, noi condividiamo con gli altri quello che ci rende vivi”, ha quindi concluso Filonenko.