"Il Cristianesimo in Medio Oriente rischia di scomparire"

Mikayel Minasyan, Ambasciatore della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede, parla di una mostra sulla Cristianità orientale che inizierà al Meeting di Rimini e dei rischi legati ai conflitti in Medio Oriente

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La fuga di decine di migliaia di cristiani dalle spietate truppe dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante percuote la coscienza dell’opinione pubblica mondiale. Ma forse non rende chiaro il messaggio che questa tragedia porta con sé: l’esistenza dei cristiani in Medio Oriente è oggi seriamente minacciata. Una delle comunità più sensibili a questa atroce eventualità è la comunità armena, che sulla propria pelle ha ancora le cicatrici di un genocidio di un secolo fa e affronta oggi, in Siria e in Iraq, le sofferenze di nuove persecuzioni. Il Meeting di Rimini che si aprirà il 24 agosto è l’occasione per inaugurare una mostra itinerante sulla Cristianità orientale promossa dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede. Un modo per “riportare l’attenzione, offuscata dalla quotidiana cronaca della guerra” sul rischio che la presenza cristiana in territori in cui è radicata da secoli venga annientata dal fanatismo islamico. ZENIT ne ha parlato con S.E. Mikayel Minasyan, Ambasciatore armeno presso il Vaticano.

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Gent.mo Ambasciatore, il suo popolo ha conosciuto sulla propria pelle la persecuzione. Qual è il messaggio che i martiri cristiani in Medio Oriente rivolgono al mondo?

I martiri cristiani in Medio Oriente non sono un fenomeno odierno. Ormai da più di cent’anni cercano di richiamare l’attenzione del mondo intero su processi e fenomeni che si sottraggono alla più logica analisi dei fatti. C’è qualcosa nei processi di modernizzazione di questa grande regione che ci sfugge e sta degenerando sempre di più in una situazione fuori ogni controllo. Il caso degli armeni, vittime di una pulizia etnica durata per quasi cent’anni tra l’Anatolia e il Caucaso e di cui il genocidio del 1915 fu uno degli apici, è di certo il più emblematico, e forse il momento che poteva segnare, a livello preventivo, una diversa evoluzione dei fatti storici successivi. Il loro messaggio, da oltre cent’anni, è proprio questo. Evitiamo il peggio.

Evitare il peggio, appunto. In alcune di queste aree, sono presenti folte e radicate comunità armene. Qual è il loro futuro?

È cosi, in quasi tutti i Paesi del Medio Oriente sono presenti ben integrate comunità armene, che con l’eccezione di Gerusalemme e del Libano, dove la presenza religiosa armena ha origini molto antiche, sono in gran parte discendenti dei sopravvissuti degli armeni anatolici deportati nel deserto siriano nel 1915 e poi da lì sparsi per tutta l’area negli anni a seguire. Ecco, per queste persone, la situazione degli ultimi due decenni è una tragica ripetizione del dolore già subito. Particolarmente difficile è oggi la condizione degli armeni siriani e iracheni. L’attacco dei jihadisti al villaggio armeno di Kessab, avvenuto tra l’altro dal territorio turco (il villaggio è posto sul confine turco-siriano) e la distruzione dell’ossario a Deir ez Zor, che conservava i resti degli armeni periti durante le disumane marce delle deportazioni nel 1915, furono un grande colpo psicologico ad una popolazione già stremata da 4 anni di guerra civile.

Quale l’impegno dell’Armenia nei confronti di questi vostri fratelli?

L’Armenia è naturalmente in primo piano nei soccorsi agli armeni di Siria ed Iraq. Una delle poche Ambasciate presenti a Damasco in questo momento è quella armena che resiste grazie al coraggio dei diplomatici. La sua chiusura vorrà dire trasformare la disperazione di queste persone in una definitiva perdita di fiducia nei confronti del mondo. Ogni giorno l’Armenia accoglie famiglie di armeni provenienti dalla Siria o dall’Iraq, ma la nostra capacità di accoglienza non è purtroppo illimitata. L’Armenia in questo momento ha i suoi problemi, con il vicino Azerbaijan che, approfittando della situazione, minaccia nuovamente l’esistenza della popolazione armena del Nagorno Karabakh.

La questione del Nagorno Karabakh è tornata d’attualità in queste ultime settimane, sebbene i media non gli abbiano dato molto risalto. Cosa sta accadendo in quella regione?

L’attuale situazione in Medio Oriente e indubbiamente anche le tensioni in Ucraina, hanno riportato il regime azero, in un momento di distrazione delle potenze mondiali, a considerare per la seconda volta la soluzione militare come alternativa alla pace nel Caucaso. Ancora una volta l’esistenza della popolazione armena del Nagorno Karabakh, garantita dalla scelta di autodeterminazione che il popolo della regione compì nel 1992, è stata messa in discussione, con l’esito di pesanti perdite di vite umane. Fortunatamente, sembra che la ragione sia prevalsa ancora una volta con l’incontro trilaterale a Sochi dei presidenti armeno, azero e russo e l’opzione del negoziato, sotto l’egida dell’Osce, è per ora ripresa. Ciò che ha salvato gli armeni in Nagorno Karabakh è stata la loro possibilità di difendersi dall’ennesima pulizia etnica messa in atto dal governo azero alla fine degli anni ’80 e, dopo una sanguinosa guerra, optare per la sovranità. Rimaniamo comunque fiduciosi che la determinazione del presidente armeno Serzh Sargsyan nella soluzione pacifica del conflitto abbia la possibilità di proseguire. La “armenofobia” che il governo azero diffonde negli ultimi anni sia a livello propagandistico che a livello di azioni concrete purtroppo non ha nulla da invidiare allo spietato atteggiamento messo in atto nei confronti delle minoranze religiose in Iraq e in Siria.

C’è un progetto di collaborazione tra la Vostra Ambasciata e la Santa Sede per intervenire in sostegno dei cristiani perseguitati?

Lo Stato armeno appoggia, attraverso l’Ambasciata, i continui appelli di Papa Francesco e l’azione concreta sia della Segreteria di Stato che degli altri dicasteri che in questi giorni lavorano incessantemente per alleviare le sofferenze di tutte le persone colpite dal fanatismo in Iraq e in Siria. A settembre avremo iniziative divulgative di sensibilizzazione sui cristiani in Medio Oriente sotto il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura.

In occasione dell’anniversario del Genocidio armeno, lo scorso aprile, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha espresso le proprie condoglianze nei confronti dei familiari delle vittime di quel crimine. Interpreta questa “apertura” come un primo passo verso un riconoscimento da parte della Turchia delle proprie responsabilità?

Ciò che Lei chiama “apertura”, giustamente tra virgolette, sarebbe un grande passo in avanti se non fosse contornato da meccanismi di negazionismo sempre più sofisticati, come vediamo nel resto del messaggio stesso rivolto dal Primo ministro turco agli armeni. Ferisce, a distanza di cent’anni, vedere ancora le vittime equiparate ai carnefici. Purtroppo insieme alle condoglianze Erdogan non ha fatto il passo decisivo del riconoscimento del crimine. Ma la Turchia ha ancora una buona opportunità con il centenario del Genocidio nel 2015.

 
Al Meeting di Rimini in programma dal 24 al 30 di agosto ci sarà un’esposizione sulla Cristianità orientale di cui è promotrice l’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede. Cosa può dirci al riguardo?

L’idea della mostra, che inizia a Rimini per poi essere itinerante, è nata un anno fa, dalla forte preoccupazione per il futuro dei cristiani e per la presenza stessa del Cristianesimo, vale a dire il suo intero aspetto culturale e sociale, in Medio Oriente. In Armenia, che riceveva centinaia di cristiani in fuga dalle loro case ogni giorno, la percezione del dramma e dell’incontrovertibile perdita era spesso diversa che in Europa. Si voleva riportare l’attenzione, offuscata dalla quotidiana cronaca della guerra, a ciò che davvero non avremmo più ritrovato, semmai un giorno i conflitti fossero cessati: le nostre origini.

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Federico Cenci

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