Una madre affranta dopo una visita dal ginecologo; la diagnosi è spietata, sindrome di down. Un padre con gli occhi rapiti nel vuoto, seduto su una panca cercando nei ricordi suo figlio mentre correva dietro a un pallone. Uno schianto, e ora è nella stanza a fianco, disteso sul letto che sarà tutta la sua vita. Un bambino zuppo di lacrime chiama la sua mamma abbracciando una bara.
Il fumo acre di polvere e fuoco sembra alzarsi nel cielo come mani in preghiera, fin lassù, da dove son piovute le bombe su ospedali e scuole; e case, tante case, normali, con la cucina e la minestra sul fuoco, con il salotto e l’albero di Natale, con la stanza dei piccoli seminata di giocattoli. E in pochi secondi più nulla.
Perché? Perché proprio a me? Perché muoiono i bambini? Perché li rubano e li violentano? Perché mia moglie se n’è andata? Perché ho perso il lavoro? Perché il male? Di chi la colpa di tanto dolore?
Ecco, questa domenica, la domenica “laetare” che innesca la gioia della Pasqua, la Chiesa depone sull’uscio di queste domande una notizia sconvolgente, un Vangelo: c’è una risposta a ogni sussulto del male, dal più piccolo al più grande.
C’è una risposta alla libertà sporcata dall’orgoglio satanico; c’è una risposta a ogni dolore che il mondo non riesce a deglutire. C’è una risposta a tutto quello che non ha risposta: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori”.
Tutti intuiamo che ci sia un’origine del male. Ma nessuna risposta, filosofica o religiosa che sia, ha mai convinto nessuno. Non lì, nell’intimo più profondo, dove in ogni uomo è deposto un granello di vita eterna che non sa tacere, e grida, e graffia le pareti del cuore, e martella la mente, che no, non può essere così, come noi ce la siamo raccontata.
Alla fine siamo rimasti soli con il nostro male, che prende la storia e la schianta nella disperazione. Soli come il “cieco”, sul ciglio della vita a raccogliere gli schizzi di fango che il male ci spruzza addosso.
Soli, che vuol dire ciechi dalla “nascita”, perché “nel peccato mi ha concepito mia madre”. Alla nostra origine vi è una “piscina” nella quale abbiamo assorbito la corruzione. E questo ci scandalizza, perché non possiamo accettare di essere stati gestati deboli nel seno di una madre debole.
Molti dei nostri problemi nascono qui; il cammino che si dice debba percorrere un ragazzo, affrancandosi dai propri genitori, tagliando il cordone interiore per assumere la propria identità, è soprattutto la lotta contro le proprie origini ferite dalla debolezza, dal peccato.
I figli, se da un lato vogliono assomigliare ai genitori nelle loro qualità, dall’altro vorrebbero cancellare la parte ereditata che a loro non piace, sia l’asperità del carattere o la cellulite.
Ogni figlio vorrebbe essere migliore, scrollandosi di dosso difetti e ipocrisie della generazione precedente. Il ’68, al netto delle ideologie che l’hanno prima ispirato e poi cavalcato, nasce da questa indomita necessità di purificazione, perché sia esorcizzato e sconfitto il male.
Il risultato fallimentare di ogni ribellione e rivoluzione, in casa come nelle piazze, è sotto gli occhi di tutti. Più male, più raffinato, più crudele. Perché il male è dentro di noi, ereditato insieme ai cromosomi. E’ nel cuore dell’uomo come una possibilità che determina la libertà.
Già, la libertà; tutti dicono di lottare per lei, ma non è vero. Siamo piuttosto tutti contro di lei, perché, confondendola con il male, ci scandalizza e ci fa paura; per questo ci impegniamo a limitarla, nel coniuge, nei figli, negli uffici, ovunque.
Non ci illudiamo, anche chi dice di lasciare libero l’altro è pronto a stringerli le mani sul collo non appena usi la libertà per fargli del male. Ogni dittatura, negli stati come nelle famiglie, è il tentativo goffo e demoniaco di rispondere alla domanda posta a Gesù: chi è stato così libero da peccare? Chi ha dato questa libertà sapendo che si sarebbe potuta aprire sul male?
Dio è stato, per amore. Eh no, amore proprio no. Guarda il mondo, guarda la mia vita, dov’è questo amore di Dio? In ogni domanda che ci poniamo sul male si cela un processo a Dio, sia per affermare che non è possibile che esista se ha permesso Auschwitz, sia per affrancarsi da Lui, prendendo in mano la propria vita. Perché il male accusa Dio, in ogni cuore.
Eccoci allora arrivati anche noi accanto a questo cieco. Eccoci confusi tra la folla, tra i farisei che si scandalizzano, tra i genitori che rifiutano il figlio. Eccoci ciechi dalla nascita, senza risposte.
Qui “passa” Gesù; ha attraversato la storia di male di ogni uomo per giungere oggi davanti a ciascuno di noi. Ci “vede” e riconosce in noi il suo destino, posando sulla nostra cecità lo sguardo del Padre che ci ha seguiti con misericordia sin dal grembo materno.
“Né lui, né i suoi genitori hanno peccato, ma è perché siano manifestate in lui le opere di Dio”. Ecco come gli occhi di Dio ci “vedono”; ecco come “vedono” ogni male, la sofferenza degli innocenti, il peccato e i suoi frutti di morte: ogni tomba è per Lui un grembo dove deporre suo Figlio perché “operi” il suo amore.
Dio, infatti, non ci ha mai abbandonati, non ci ha giudicati, ci ha amato sempre, sino a “inviare” suo Figlio nel fango che è tornata a essere la nostra vita. Non ha impedito il male perché non ha voluto toccare la nostra libertà. E’ in essa che risplende in noi la somiglianza con Lui.
Certo, la libertà è un rischio, è debole nelle creature. Ma se così non fosse non sarebbe libertà; se non includesse la possibilità di attraversarla per scegliere il male non sarebbe amore. Ed è quello che abbiamo fatto tutti.
Per questo Gesù ci dice che ci stiamo sbagliando: la cecità non è la conseguenza del peccato di qualcuno, è essa stessa il peccato. E’ alla nostra origine, quando “nasciamo” e ci affacciamo sulle situazioni e le relazioni che, interpretate dai sofismi del demonio, mettono in discussione l’immagine buona e amorevole di Dio.
Accogliendo la menzogna del serpente chiudiamo gli occhi su Dio e sul suo amore, per non riaprirli più. Questo è il peccato, ed è come se si fosse spenta la luce. Anche la creazione è divenuta cieca, il corpo, la terra, il cuore e la mente dell’uomo. I terremoti, le malattie, il dolore innocente sono proprio la negazione dell’amore.
Non dovrebbe morire un bambino, dovrebbe poter aprire gli occhi sul mondo e gustarne la bellezza. Non dovrebbe finire un matrimonio, dovrebbe aprire gli occhi ogni giorno sull’amore dei coniugi, libero, puro, disinteressato.
Ma è così, e ci si divorzia, si violenta, si ruba, si uccide. Si pecca e si soffre. E Gesù prende i nostri peccati, la nostra debolezza, prende il “fango” che traduce Adamo, e lo mescola alla sua “saliva”. Prende la nostra realtà e la sposa alla sua Parola, per “ungere” con l’amore i nostri occhi chiusi sull’amore.
E ci manda a “lavarci”, perché esiste un’altra “piscina”, quella di Siloe, dell’Inviato, del Messia dove rinascere a vita nuova, quella capace di entrare nella libertà e decidere per il bene.
L’episodio del vangelo di questa domenica è un altro scrutinio pre-battesimale della Chiesa primitiva. E’ proclamato nel mezzo della Quaresima per chiederci a che punto stiamo. Se ancora siamo scandalizzati del male e passiamo il tempo a cercare capri espiatori su cui riversare violenza e frustrazioni.
O se stiamo sperimentando il cammino del cieco. Cosa risponderesti a quella madre che ha perso il bambino, a quell’uomo al quale il terremoto ha strappato la casa, a quella moglie tradita? Sapresti dire “come ti sono stati aperti gli occhi”? Sapresti testimoniare che Gesù è il “profeta” che ti ha “visto” con amore e ti ha aperto gli occhi facendosi una carne con la tua debolezza per illuminarla con
il suo amore?
Sapresti annunciare che Dio ti ama veramente, che nella Chiesa ti ha accolto immergendoti nella sua misericordia manifestando in te la sua opera? A questo siamo chiamati, imparando a prendere il rifiuto del mondo e di tanti religiosi, per testimoniare al mondo che abbiamo “visto” la risposta al male, l’abbiamo contemplata e sperimentata in Cristo risorto.