La giustizia sociale e il possibile incontro tra cattolici e liberali

L’insegnamento di Rosmini e Hayek per recuperare il senso del “civile” quale dimensione includente in cui i processi di mercato assumono il carattere del vivere con l’altro e non contro l’altro

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Ciclicamente si ripropone il dibattito tra cristianesimo e liberalismo e c’è sempre chi brandisce la nozione di “giustizia sociale” come motivo della loro incomunicabilità ed inconciliabilità. Crediamo invece che sia proprio quella nozione ad esprimere le ragioni di un incontro fin troppo ritardato. Un incontro che ci consentirebbe di andare oltre la contrapposizione “Stato-mercato”, evidenziando la cifra del “civile” come la dimensione includente nella quale i processi di mercato, lungi dall’essere negati ovvero guidati dallo Stato e dalla politica, assumono il carattere autentico del vivere con l’altro e non contro l’altro. E’ l’idea del mercato come processo relazionale, nutrito dalla sympathy, piuttosto che dall’interessata benevolenza del sovrano ovvero dal cieco disinteresse per le aspettative altrui.

Per chiarire questo punto, possiamo assumere, come esempio, il confronto critico tra Antonio Rosmini e l’economista austriaco Friedrich August von Hayek, prorpio sul tema della “giustizia sociale” e osservare come si possa delineare una sorta di “personalismo liberale” di matrice tipicamente hayekiana e rosminiana, capace di soddisfare tanto le istanze autenticamente liberali, quanto la sua portata morale-religiosa. Rosmini riesce ad integrare questi due momenti, che in Hayek rimangono volutamente e metodologicamente distinti.
Anticostruttivismo ed antirazionalismo sono senz’altro le due prospettive teoriche nelle quali le posizioni dei nostri autori individuano un possibile punto di incontro.

Nel confronto con Hayek, si evince la fondamentale importanza del costituzionalismo rosminiano, in quanto è tramite il costituzionalismo che il roveretano riesce ad inserire il principio della “giustizia sociale” come criterio normativo a livello sociale. Hayek, come sappiamo, rifiuta tale concetto, in quanto gli appare “atavico”, figlio di una società tribale, ovvero “onirico”, in quanto prodotto di un “miraggio” nel quale la “great society”, la popperiana “società aperta”, non può permettersi di perdersi, pena il risucchio nella dimensione sociale clanica e tribale che nell’epoca contemporanea ha assunto le tinte fosche e terrificanti del totalitarismo.

Secondo Hayek la nozione di giustizia sociale è priva di contenuto, poiché l’apparato governativo è incapace di agire per uno scopo specifico, dal momento che esprime la propria volontà attraverso il diritto che presenta le caratteristiche di astrattezza e di generalità dei fini. Ne consegue che la richiesta verrà raccolta da alcuni membri della società i quali assegneranno particolari quote della produzione a vari individui o gruppi. Per Hayek tale sottomissione, che ha come fine la giustizia sociale, porterà inevitabilmente alla eliminazione di quelle condizioni indispensabili per la crescita e lo sviluppo della libertà personale. 

Ebbene, Hayek, per ragioni di ordine metodologico, è perciò fortemente intenzionato a ricondurre il principio della “giustizia” alla dimensione personale dell’agire. Effettivamente, il personalismo di Rosmini contempla l’impegno delle singole persone a dar vita ad istituzioni politiche ed economiche nel tentativo di rispondere all’esigenza di risolvere problemi “sociali”; ossia, l’agire individuale si risolve nell’edificazione di istituzioni sociali: è la cosiddetta “via istituzionale della carità”, espressa da Benedetto XVI in “Caritas in veritate”.

Ecco, dunque, che la giustizia, in quanto virtù, è praticata dalla persona (e non potrebbe essere diversamente), ma le idee e le azioni individuali se ripetute e sanzionate si risolvono in istituzioni politiche ed economiche che, nella misura in cui rispettano e promuovono la dignità umana, possono essere definite orientate alla “giustizia sociale” ovvero contraddire quest’ultima. In tale senso, Rosmini non cadrebbe nell’“agguato di Hayek”. Egli, in definitiva, non compie l’errore che Hayek imputa ad una parte del pensiero sociale cattolico, spesso incantato dalle sirene dello statalismo e del corporativismo.

Invero, Rosmini, citato da Hayek nel secondo volume di Legge, legislazione e libertà, intitolato Il miraggio della giustizia sociale, non interpreta il principio della giustizia sociale in modo olistico; in pratica, non trasferisce la responsabilità dell’esercizio della virtù della giustizia allo “Stato” – il criterio interpretativo della nozione di giustizia sociale in Rosmini è e rimane la persona umana.

Sulla base del confronto tra Hayek e Rosmini, assumendo il metodo della “via istituzionale della carità”, possiamo ridefinire la nozione di giustizia sociale, sganciandola da una prospettiva statalistica, corporativistica e monistica, ancorandola ai principi di sussidiarietà orizzontale e di poliarchia. Per questa ragione, nelle società libere i cittadini sono portati ad usare la propria tendenza all’associazione per esercitare nuove responsabilità e per indirizzarsi verso fini sociali. La giustizia sociale è la particolare forma assunta al giorno d’oggi dall’antica virtù della giustizia. Pertanto, la giustizia sociale non prevede necessariamente il rafforzamento della presenza statale, quanto, piuttosto, lo sviluppo responsabile della società civile.

A questo punto appaiono evidenti le conseguenze pratiche e le ricadute politiche di tali considerazioni rosminiane e hayekiane sull’ordinamento sociale. Un ordinamento osservato nella sua concretezza e contingenza, almeno nella misura in cui si consideri l’ordinamento sociale come un sistema complesso, poliarchico, tutt’altro che omogeneo, all’interno del quale le sue istituzioni – politiche, economiche e culturali – si risolvono in un pluralismo non corporativo che rifiuta la gerarchizzazione istituzionale e, con essa, l’infausto primato del politica.

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Flavio Felice

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