Magistero sociale tra crisi politica e governance internazionale

E’ urgente che la società internazionale torni a “fare politica del bene comune”

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“Di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l’urgenza della riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni” (Caritas in Veritate n.67).

In maniera profetica, Benedetto XVI sottolineava nella sua Enciclica l’urgenza della creazione di un governo internazionale più ampio e strutturato, che consentisse di gestire i rischi endogeni ed esogeni di un mondo interconnesso. Inoltre, auspicava il Papa emerito, la governance mondiale, in maniera sussidiaria e democratica, avrebbe dovuto elaborare un diritto internazionale globale e credibile.

Le conseguenze della mancanza di un governo mondiale sono emerse chiaramente nella crisi finanziaria e nelle diverse aree di crisi politiche, di cui la Crimea è solo l’ultimo caso. I risultati del referendum in Crimea hanno deciso il distacco dall’Ucraina e l’adesione alla Federazione Russa. La vittoria dei pro-Russia, nonostante sia il risultato della forma più classica di democrazia diretta – il referendum – rivela purtroppo, anche in questo drammatico caso, la mancanza di un governo mondiale e la crisi profonda del diritto internazionale.

Difatti, a livello giuridico, l’invasione delle truppe russe costituisce una netta violazione delle norme di diritto internazionale generale, come pure della Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e, ovviamente, anche dei principi basilari dell’OCSE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Questo ha determinato un confronto duro, diretto globale con Stati Uniti d’America, Europa, Cina e India, dettato da esigenze di politica militare di dominio, rifiutando qualsiasi forma di diplomazia o mediazione aprendo a possibili pericoli.

Queste pericolose crisi dimostrano il bisogno di un governo mondiale e di un diritto internazionale efficace. Segnalano inoltre, a livello globale, l’uso patologico della democrazia in cui il voto popolare sovrano è strumentalizzato dai nuovi populismi e da diverse tecnocrazie che hanno il solo scopo di legittimare il potere.

Una patologia, questa, che sta affliggendo anche l’Unione Europea, anche se in misura minore. Difatti la sovranità popolare dei singoli Stati nazionali non indice sull’organo di governo, non attiva il principio della sussidiarietà: la Commissione Europea, il Consiglio Europeo e soprattutto alla BCE, sono dei poteri tecnocratici che non rispondono al bene comune.

In tal senso è illuminante quanto afferma il Papa emerito, il quale evidenzi come si sia passati dalla pretesa di autosufficienza dell’uomo, all’analoga pretesa di autosufficienza della tecnica che utilizza il “processo di globalizzazione” (CIV, n. 70), per “sostituire le ideologie” (ibidem) e svolgere lo stesso ruolo negativo.

Dalle ideologie si passa così all’”orizzonte culturale tecnocratico” (CIV n. 70): “La tecnica – scrive Ratzinger – divenuta essa stessa un potere ideologico, esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un ‘a priori’ dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità” (ibidem). Siamo dinanzi alla negazione del principio di sussidiarietà, ad una rivoluzione dall’alto, in cui si realizza una commistione di interessi tra potere tecnocratico, politico,  economico, finanziario e in cui non si distinguono più l’uno dall’altro.

Montesquieu, Tocqueville e Bobbio non potevano certo prevedere siffatto disfacimento dell’equilibrio liberale dei poteri democratici che compromette l’indispensabile collegamento tra sovranità popolare e governo del Paese. Forse non è inutile sottolineare che il pericolo maggiore che Mill e Tocqueville avevano previsto per la democrazia – cioè la dittatura della maggioranza – è stato sostituito dalla dittatura delle minoranze e del caos populista, ora maggiori responsabili dell’inefficienza del potere legislativo.

Dinanzi a questa crisi conclamata della democrazia una via d’uscita viene indicata da un saggio del 2011 dell’allora arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio, composto in occasione del bicentenario dell’Argentina e pubblicato quest’anno in lingua italiana dalle edizioni LEV e Jaca Book, (“Noi come cittadini. Noi come popolo”, 96 pagine, 9 euro).

ll contesto del saggio è quello argentino, ma la riflessione di Bergoglio supera i confini del suo paese natale. Così, quando punta il dito contro la politica asservita a interessi settoriali e individuali, ridotta a strumento di gestione di posti e di spazi, senza capacità progettuale e  senza limiti e contrappesi nei confronti della finanza e delle lobby, è evidente che la riflessione del Pontefice sia utile per uscire dalla attuale crisi democratica e dalla mancanza di un governo mondiale che regoli i rapporti di forza delle lobby globalizzate.

Il termine cittadino – spiega il cardinale Bergoglio – viene dal latino citatorium, nel senso che “il cittadino è il convocato, il chiamato al bene comune, convocato perché si associ in vista del bene comune”. Perché ci sia comunità ognuno deve avere dunque un munus, un compito, un obbligo nei confronti di sé e degli altri. Sono, queste, categorie messe ormai in secondo piano o del tutto dimenticate – dice il Papa – nell’epoca dell’individualismo nichilista, perché oggi il cittadino è più che altro colui che chiede, critica, domanda, esige e, semmai, moraleggia, ma non è più colui che aggrega e si mette in gioco.

Da dove ripartire, allora? Occorre valorizzare l’identità, che si recupera con il senso di appartenenza a un popolo in cammino. In questo modo non abbiamo più, da un lato, l’individuo isolato e, dall’altro, il mucchio indistinto, la massa amorfa. Ma abbiamo il popolo, ovvero “la cittadinanza impegnata, riflessiva, consapevole e unita in vista di un obiettivo o un progetto comune”.

Tutto questo implica l’urgenza, come afferma Papa Francesco, che la società internazionale torni a “fare politica del bene comune” (1). Soprattutto, per contribuire all’edificazione di un ordine globale le cui istituzioni siano di tipo sussidiario e poliarchico, attente alle vera democrazia e al bene comune. E, soprattutto, per evitare di dar vita a un “pericoloso potere universale di tipo monocratico” (2).

*

NOTE

1) Papa Francesco, Evangelii Gaudium, n.205 “La politica, tanto denigrata – scrive Papa Francesco – è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”.

2) Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 57, ma anche il n. 67 andrebbe in questa direzione, insistendo sul concetto di governance della globalizzazione, piuttosto che di government.

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Carmine Tabarro

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