La messa appunto della “geopolitica del caos” – anche conosciuta come o “perturbazione continua degli spazi territoriali” -dopo aver rovesciato il Governo ucraino, ci riprova in Venezuela. Stando infatti alle notizie riportate dalla stampa nazionale e internazionale che giungono direttamente dallo Stato Indio-latino, non è difficile cogliere anche per l’osservatore meno attento la logica che si cela dietro i tumulti che in questi giorni infiammano il Paese.
Ciò appare ancora più chiaro se si tiene conto delle caratteristiche geografiche (il paese è connesso alle principali aree regionali andina, amazzonica e caraibica) che, unitamente ai processi storico-politici degli ultimi vent’anni e alle ingenti risorse petrolifere presenti nel sottosuolo, hanno permesso al Venezuela di giocare un ruolo da protagonista nello scacchiere regionale, scompaginando l’assetto geopolitico precedente all’interno del quale il continente sud-americano veniva percepito come il “cortile di casa” degli Stati Uniti.
Non vi è dubbio, infatti, che il merito di tale capovolgimento sia attribuibile al Presidente Chàvez, il quale, districandosi con molta abilità nei nuovi equilibri che andavano profilandosi, ha posto il Venezuela alla testa del cambiamento rendendolo protagonista indiscusso di una serie di iniziative regionali – ALBA, UNASUR, CELAC – atte ad arginare l’egemonia economica statunitense. Tuttavia vi è da dire che in questa fase non pochi sono stati i fattori che hanno giocato a favore del Venezuela. Tra questi si annoverano l’arretramento degli Stati Uniti dalla regione per far fronte agli impegni assunti nella lotta al terrorismo, la conseguente penetrazione dei nuovi poli emergenti quali Cina e Russia, nonché gli elevati prezzi del barile di petrolio che hanno consentito al governo di destinare parte dei proventi per ridurre la povertà e l’indigenza a quell’epoca dilaganti.
La Cina, in particolare, ad oggi considerata un partner speciale per tutti i paesi dell’area, ha intessuto con il Venezuela un privilegiatissimo rapporto di cooperazione che, oltre all’apertura di copiose linee di credito, abbraccia le varie sfere dell’economia e della politica. La massiccia presenza di questi nuovi poli emergenti e il nuovo approccio improntato su un rapporto di cooperazione e non di subordinazione, rappresenta una seria minaccia di invasione di quell’area che dall’era Monroe – da cui prende il nome l’omonima dottrina – in avanti è stato considerato lo spazio vitale statunitense.
Tuttavia, occorre precisare che la grande abilità mostrata da Chàvez in campo internazionale non è stata altrettanto pregnante in ambito interno. Così, dopo la sua precoce dipartita, il caudillo ha lascito in eredità al suo delfino e neo Presidente Nicolas Maduro l’ardua incombenza di far fronte alle molte questioni irrisolte tra cui certamente si annoverano l’annoso problema dell’inflazione, quello della criminalità che ha registrato un aumento del tasso degli omicidi di ben il 14% nell’ultimo anno e, da ultimo ma non certo per importanza, quello dell’eccessiva dipendenza dalle risorse petrolifere e del mancato completamento del processo di diversificazione economica che consentirebbe al Venezuela di distaccarsi da un importante 95% di dipendenza dalle esportazioni di petrolio.
A rendere ancor più ardua la missione del Presidente Maduro è stata la risicatissima vittoria sullo sfidante Capriles (50,66 % contro il 49,07%) che, contro ogni aspettativa, gli ha presentato un Paese confuso, disorientato e perfettamente spaccato in due blocchi e, dunque, potenzialmente candidato ad una condizione di stallo.
I mesi successivi sono stati contraddistinti da un’inflazione crescente, generata anche da speculazioni finanziarie di dubbia natura che hanno creato le condizioni necessarie affinché Leopoldo Lopez – esponente dell’estrema destra venezuelana e legato a quell’elite internazionale filostatunitense che già nel 2002 provò a rovesciare Chàvez – si mettesse a capo di una pattuglia di rivoltosi col precipuo fine di gettare il Paese nel caos e di dare una spallata al governo di Maduro che, nonostante i già numerosi caduti durante le proteste, sta cercando di guidare un processo di pacificazione nazionale.
In tale contesto il governo, supportato dall’UNASUR e dai principali alleati internazionali (fra cui la Cina), viene ostacolato dagli Stati Uniti che per mezzo del Segretario di Stato John Kerry già minacciano di irrogare sanzioni nei confronti del Paese. Tale logica, a ben vedere, è coerente con l’esigenza statunitense di recuperare il terreno perduto nel proprio spazio vitale, arginando la penetrazione delle nuove potenze, e in particolare della Cina con la quale è in disputa per il controllo del Pacifico.
É indubbio che così operando gli Stati Uniti stiano tentando di mettere a punto in Venezuela un regime change sulla falsariga di quanto accaduto recentemente in Ucraina. Non vi è da escludere, peraltro, che tale strategia abbia un più ampio respiro e che miri a colpire oltre al Venezuela anche l’Argentina e ad “espugnare” il Brasile che rappresenta certamente il principale obiettivo. Ebbene, ove questa ambiziosa strategia dovesse trovare effettivo compimento, assesterebbe un colpo mortale ai processi di unificazione sudamericana riconferendo alla regione quel ruolo da “terzo mondo” che l’ha contraddistinta per decenni.