Due donne, un segno: Maria che riceve l’Annuncio dall’arcangelo Gabriele e la donna di Betania, forse una prostituta, che cosparge il capo di Gesù di olio prezioso. È partito da queste due figure femminili evangeliche, mons. Angelo De Donatis per sviluppare la meditazione di stamane, penultimo giorno di Esercizi Spirituali ad Ariccia con il Papa e la Curia.
Il parroco di San Marco in Campidoglio ha riflettuto su Maria e sulle azioni da Lei compiute. La Vergine, infatti, “vede, ascolta, accoglie, mette da parte i suoi progetti, rinuncia alla logica umana”, dona a Dio la sua disponibilità senza esitare. E il Signore le “apre il suo oggi eterno”. Ma c’è di più: la Madonna concepisce un figlio nella totale verginità.
La verginità di Maria – ha spiegato mons. De Donatis – non vuole “sottovalutare la sessualità”, ma “evidenziare che quel Bambino deve nascere come dono di grazia di Dio non come prodotto della capacità del mondo”. Essa, ha aggiunto, “ha a che fare con la grazia di Dio, non con la bontà etica del comportamento” e “consiste nel non porre la propria fiducia nei mezzi mondani, ma nel lasciare operare lo Spirito di Dio nella propria vita”.</p>
Ciò spiega il celibato dei sacerdoti – ha rimarcato il predicatore – che non è un espediente per rendere il prete “più libero, efficace, adeguato”, ma un mezzo per donargli la paternità “attraverso l’opera dello Spirito Santo”, cioè la fede. E “il mondo aspetta padri e madri che possano generare per Dio”, ha affermato De Donatis, esortando quindi i consacrati a compiere “una pastorale fatta con verginità e maternità, con celibato e paternità”.
“Anche a noi come a Maria – ha proseguito – è chiesto prima di tutto di credere e di fidarci del Signore, credendo più a Lui che ai nostri dubbi e alle paure che il nemico fa sorgere dentro di noi”. E, a suggello di questa fede, Dio ha mandato sulla terra un segno, Suo Figlio Gesù Cristo che si rende presente nella vita dell’uomo e che è capace di trasformare il male in bene.
Come accade nella casa del lebbroso a Betania, dove – ha ricordato mons. De Donatis – Cristo riceve un gesto d’amore gratuito da questa donna che “muore a se stessa, ai suoi desideri ed egoismi”. È proprio questo “vivere la Chiesa” – ha affermato il sacerdote – cioè “morire a se stessi per resuscitare come uomini della comunione”. Infatti, “più gli uomini si avvicinano a Dio” e tra loro, più si crea “quella comunione che va oltre la morte e passa all’eternità”.
Nella meditazione di ieri, mons. De Donatis si è concentrato invece sul tema del linguaggio, distinguendone subito le diverse tipologie. Esiste infatti un linguaggio del mondo – ha evidenziato il sacerdote – che è “una trappola” nella quale non deve cadere chi vuole testimoniare l’amore di Dio. Ed esiste il linguaggio di Cristo, che è il “linguaggio giusto” né della forza né del potere, ma il linguaggio della debolezza, facilmente comprensibile da tutti, soprattutto a chi soffre.
Da questo punto di vista, “Gesù era un ottimo comunicatore”, ha affermato il predicatore: pur non pronunciando mai “discorsi che volevano persuadere a tutti i costi”, Egli riusciva a far capire l’amore profondo di Dio per l’uomo. Le Sue parole non provenivano, infatti, dalla “sapienza del mondo” ma dalla “sapienza di Dio”, grazie alla quale riusciamo a cogliere la grandezza dei doni divini e, a nostra volta, offrirli agli altri.
Ne è dimostrazione l’indemoniato del Vangelo di Marco – la cui figura, mons. De Donatis ha approfondito nella precedente meditazione – il quale, una volta liberato da Gesù dalla legione di duemila demoni che lo possedeva, divenne il primo missionario. Il giovane, ha detto il predicatore, “andava infatti per le strade e raccontava cosa aveva fatto Gesù per lui”.
Nella stessa meditazione, il parroco di San Marco al Campidoglio ha preso poi ad esempio un’altra figura evangelica, l’emorroissa, di cui ha individuato due gesti particolarmente significativi. La rassegnazione ai limiti della disperazione per la sua malattia, e anche per l’impurità che la religione ebraica attribuiva alla donna a causa delle sue perdite di sangue con cui contagiava tutto ciò a cui si accostava.
Un aspetto questo – ha commentato De Donatis – che riguarda in un certo senso il mondo di oggi. Quei casi, cioè, in cui il peccato si insinua nell’uomo: “egli sta morendo ma la religione non gli consente di salvarsi”. L’emorroissa, ha detto, è “condannata dalla sua religione” ma “salvata dall’incontro con la misericordia di Gesù”, al quale si accosta con fede.
Ed è questo il messaggio più importante del brano evangelico: la salvezza che una donna ritenuta “impura” ottiene da Gesù per aver creduto in Lui, grazie ad una fede più forte della rassegnazione, che la spinge a farsi travolgere dalla folla pur di sfiorare fugacemente il mantello del Messia. Perché, era convinta, questo avrebbe potuto salvarla.
E aveva ragione la donna, la fede nasce proprio “nel contatto con Cristo vivo”, ha affermato mons. De Donatis. Oggi, invece – ha osservato con rammarico – “noi costruiamo impalcature enormi per arrivare a Cristo ma non riusciamo a incontrarlo. Forse perché seguiamo troppo le cose del mondo” e “non pensiamo al senso profondo del nostro battesimo, che rappresenta il momento in cui entriamo nella Chiesa”.
Forse, ha aggiunto, perché “non riflettiamo a sufficienza sul fatto che vi entriamo da morti, uccisi dal peccato”, e ne usciamo da vivi “grazie al sangue di Gesù versato sulla croce”.
Sembra quasi – ha ribadito il parroco – che “non facciamo nulla per salvarci”. Ma la notizia straordinaria del Cristianesimo è che di fronte a questa limitatezza umana, l’iniziativa la prende Dio e “fa tutto” Lui. Allora “dobbiamo abbondantemente ringraziarlo perché ci fa rinascere”, ha concluso don Angelo, e per salvarsi “è sufficiente camminare con Cristo”, insieme a Lui. Ma attenzione, ha raccomandato, in questo cammino “non lasciatevi saccheggiare di Dio”.