Riportiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questa mattina dal cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, all’Incontro del Comitato Tecnico-Scientifico dell’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID), presso la sede di “La Civiltà Cattolica” a Roma.
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Signore e Signori!
Con la Costituzione Dogmatica Lumen Gentium,il Concilio Vaticano Secondo ha ricordato alla Chiesa, in quanto Popolo di Dio, la sua chiamata a essere sempre più, in Cristo, “in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”[1]. Questa missione fondamentale trova una continua eco nella vita e negli insegnamenti del Magistero: nessuno è straniero nella Chiesa ed essa non è straniera a nessuno, in alcun luogo. Come sacramento di unità, e quindi come segno e forza di unione per l’intero genere umano, la Chiesa è il luogo in cui i migranti sono riconosciuti e accettati come fratelli e sorelle, qualunque sia il loro status legale, per varie ragioni. Tutti possono trovare un’accoglienza cordiale e fraterna nella comunità cristiana, e questa solidarietà comporta delle responsabilità nei confronti di chi è in difficoltà[2]. Perciò la Chiesa, senza fare distinzioni di etnia, cultura o provenienza, accoglie ciascuno con gioia, carità e speranza. Lo fa con una particolare attenzione a quanti si trovano – indipendentemente dai motivi – in situazioni di povertà, emarginazione ed esclusione.
Tenendo ben presente tutto ciò, entro nel merito del mio discorso, che intende offrire una prospettiva cristiana alla nostra discussione di oggi. Inizierò dall’ultima parte del tema: cioè, dalla formazione di una sola famiglia umana. Papa Benedetto XVI, nell’udienza al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, notava che “la Chiesa, fin dai suoi inizi, è orientata kat’holon, abbraccia cioè tutto l’universo» e con esso ogni popolo, ogni cultura e tradizione. Tale “orientamento” non rappresenta un’ingerenza nella vita delle diverse società, ma serve piuttosto a illuminare la coscienza retta dei loro cittadini e ad invitarli a lavorare per il bene di ogni persona e per il progresso del genere umano”[3]. Esiste una sola famiglia umana – un’unica famiglia di fratelli e sorelle in una società caratterizzata sempre più da multietnicità e multiculturalismo – che la Chiesa è chiamata a servire. In linguaggio teologico, esiste una sola comunità del genere umano, poiché in ultima analisi tutti gli uomini hanno un’unica origine e causa, così come un’unica meta definitiva e finale: Dio stesso. Quindi, la cura e la Provvidenza di Dio si estendono a tutti e a ciascuno senza eccezione, e tutto il genere umano avanza lungo uno stesso percorso condiviso dagli uomini e dalle donne della terra[4]. La strada è la stessa, quella della vita terrena, ma le situazioni che i singoli individui o i gruppi devono affrontare in questo cammino, sono differenti. In questa cornice si iscrive per molti, circa un miliardo di persone, la difficile esperienza dell’emigrazione nelle sue varie forme.
Attualmente ci troviamo di fronte a una situazione globale completamente nuova, che attende una risposta innovativa. Il terzo millennio, nel quale stiamo vivendo, è cominciato nel risveglio delle sfide che il precedente aveva lasciato dietro di sé. Queste sfide sono inusuali, non perché siano qualcosa di nuovo, infatti, conflitti, guerre, povertà, calamità naturali, persecuzioni ed epidemie ci sono sempre stati, ma perché “la crescente interdipendenza del mondo ha dato loro una dimensione globale, che richiede nuovi modi di ragionare e nuovi tipi di cooperazione internazionale per affrontarle efficacemente”[5]. Il processo di globalizzazione sta portando le persone sempre più vicine tra loro, a motivo sia dello sviluppo delle comunicazioni sociali che della frequenza e facilità dei mezzi con cui ci si può spostare attorno al globo.
Inoltre, è interessante notare, ed è allo stesso tempo un po’ paradossale, che mentre in passato il movimento delle persone andava di pari passo con lo sviluppo di contatti e interscambi tra differenti società e culture, oggi, nonostante il mondo sia più interconnesso che mai, la mobilità delle persone va incontro a barriere che la restringono. A fine Ottocento e inizi Novecento, migrazioni umane su vasta scala hanno rivestito un ruolo fondamentale nelle prime fasi del processo di globalizzazione. Attualmente, in un mondo che presenta flussi finanziari e commerciali tanto liberi, a volte sembra che la possibilità di migrazioni internazionali sia in qualche modo esclusa dall’ideale del nuovo processo di globalizzazione. Le molte difficoltà poste sul cammino dell’emigrazione, proprio quando si promuovono scambi in tempo reale, in certo qual modo, sono un segno di alcuni aspetti asimmetrici di una globalizzazione che include individui, gruppi di popolazione, stati o regioni, ma allo stesso tempo ne esclude altri. Rispetto alla globalizzazione finanziaria, molti segnali indicano che il grado di globalizzazione dell’emigrazione è molto più limitato. Il libero movimento delle persone tra le nazioni è oggetto di accese discussioni e di negoziati internazionali, spesso volti a consentire soltanto movimenti temporanei di persone aventi qualifiche direttamente connesse con gli affari o i servizi.
Ad ogni modo, il fatto che molti migranti si muovano nonostante i persistenti ostacoli mostra, se posso dire, una certa “incompatibilità” tra gli approcci restrittivi adottati dagli Stati e/o dalle regioni, e un mondo che sta avanzando verso una crescente liberalizzazione di altri flussi. Una tale incoerenza può essere considerata, in qualche modo, responsabile del gran numero di migranti senza documenti e anche della comparsa di certe aree di transito migratorio in varie parti del mondo, come pure del fatto di costituire terreno fertile per diversi gravi crimini contro i diritti umani, vale a dire il traffico di esseri umani attraverso le frontiere. Da una simile prospettiva, si deve seriamente sottolineare l’esigenza di promuovere accordi più ampi tra le nazioni o le regioni, allo scopo di assicurare una migliore gestione della migrazione internazionale. È necessario anche riconoscere il ruolo fondamentale della società di formulare misure concernenti l’immigrazione, e di incoraggiare al pieno rispetto dei diritti di tutti i migranti.
A questo punto, è doveroso ribadire ciò che la Chiesa sostiene da lungo tempo nei suoi insegnamenti riguardo al fenomeno dell’emigrazione. Nella sua dottrina sociale, la Chiesa ha sempre salvaguardato il diritto di ogni essere umano a emigrare. Il Beato Papa Giovanni XXIII, nell’enciclica Pacem in Terris,aveva affermato che “Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse”[6].Ciò trovò eco nella successiva Istruzione De Pastorali Migratorum Cura, un documento sulla migrazione per se, che esprimeva questo pensiero in modo ancora più succinto: “l’uomo ha diritto ad emigrare, a scegliersi all’estero una nuova casa ed a procurarsi più degne condizioni di vita”[7]. La Chiesa Cattolica ha sempre sostenuto che il diritto degli esseri umani a migrare è annoverato tra i diritti umani fondamentali e permette alle persone di insediarsi dove meglio credono per realizzare le loro capacità, le loro aspirazioni e i loro progetti. Il diritto di utilizzare i beni spirituali e materiali ai fini della propria realizzazione è un diritto naturale di tutto il genere umano, e non appartiene solo alle singole persone, ma anche alle fami glie[8].
Questo diritto, d’altra parte, si trova in giustapposizione dei diritti di una particolare nazione o di un organo di governo di regolare il flusso dei migranti per mezzo di una legislazione specificamente promulgata per la protezione del bene comune della nazione. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda chiaramente che le nazioni più prospere hanno un certo obbligo, nella misura delle loro possibilità, di accogliere lo straniero che giunge in cerca di sicurezza e dei mezzi di sopravvivenza che non è riuscito a trovare in patria. Entro questi limiti, le autorità politiche sono giustamente autorizzate a subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche per la salvaguardia del bene comune di cui sono responsabili – in particolare riguardo ai doveri degli immigrati nei confronti del Paese che li accoglie. Proprio come sono tenuti a fare i cittadini, così gli immigrati devono rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale della nazione che li ospita e devono obbedire alle sue leggi, e contribuire all’adempimento delle necessarie responsabilità civili[9].
Ciò nonostante, nel suo messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato di quest’anno, il Santo Padre ha voluto sottolineare un altro aspetto importante, e oserei dire primordiale, dell’insegnamento della Chiesa in merito al fenomeno dell’emigrazione. Un aspetto che appare cruciale ricordare qui oggi. Nell’attuale contesto sociale e politico del mondo, e oltre al diritto di migrare e a quello delle nazioni di regolare tale migrazione [tenendo sempre presente la dignità e i diritti di ogni essere umano], “prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra”[10]. Il diritto fondamentale di vivere nel proprio Paese, diventa effettivo solo se si tengono sotto controllo i fattori esistenti in una nazione, che spingono le persone a emigrare. In effetti, come Papa Benedetto XVI rileva nel suo Messaggio, una gran parte dell’intero fenomeno migratorio odierno può far risalire la sua causa a instabilità economica, a mancanza di beni essenziali o di posti di lavoro, a calamità naturali o dovute all’intervento dell’uomo, oppure a instabilità sociali e politiche nella patria del migrante. Ciò, inoltre, evidenzia ed esige di considerare i motivi che sottostanno alla scelta di partire dell’emigrante, e richiede la ferma determinazione ad affrontare il fenomeno dell’emigrazione alle radici, fin dai fattori che spingono a emigrare[11].
Nell’odierna società globale, molti Paesi si trovano a dover far fronte all’eruzione del fenomeno migratorio in qualche modo. Esso ne condiziona la vita sociale, economica, politica e religiosa, e sta diventando un fenomeno strutturale sempre più presente. La scala della migrazione è significativamente aumentata in numero negli ultimi decenni, come ho già menzionato. Molti di più sono gli itineranti, persone costantemente in movimento, non considerate nelle statistiche. Non abbiamo bisogno di guardare lontano: il colore e il fremito delle comunità migranti è facilmente visibile perfino qui, nella nostra Italia. Tuttavia, l’emigrazione non è solo una questione di diversità e di culture differenti. Gli aspetti più importanti sono quelli dell’unità, della mescolanza dei popoli, del riunirsi insieme e dell’incontro di persone di ogni parte del mondo. È in questo “incontro di popoli” che l’evangelizzazione può e deve trovare posto.
In tale situazione, la Chiesa, esperta in umanità, “viene interpellata per discernere e valutare il novum culturale prodotto dalla globalizzazione. È un novum che investe l’intera comunità degli uomini, chiamata da Dio, Creatore e Padre, a formare una sola famiglia nella quale a tutti vengano riconosciuti gli stessi diritti e doveri, in forza della comune e fondamentale dignità della persona umana”[12]. Il processo di globalizzazione è un fatto, ma comporta in sé una sfida complessa. Può creare grandi opportunità basate sulla creatività e sull’iniziativa, rendendo molte delle barriere del passato praticamente irrilevanti. Eppure, allo stesso tempo, esso include il rischio, essendo diretto dall’uomo, di poter essere influenzato da decisioni non sempre esenti da ambizione personale, anche notevole. Alla fine, l’emergenza di una rete internazionale di sistemi sociali ed economici salverà la famiglia umana solo se diventerà un processo di inclusione. Accrescendo il rispetto per la dignità di ogni singola persona e incoraggiando l’unità del genere umano, la globalizzazione dovrà servire la responsabile programmazione e gestione di questo mondo, che è stato affidato all’umanità da Dio nella Creazione. Una globalizzazione che sfocia in una diffusa esclusione, semplicemente non è globale. Un processo di globalizzazione che implichi inclusione può essere raggiunto solo con uno sforzo cosciente di solidarietà ed è il risultato di decisioni molto concrete da parte di ogni essere umano[13].
In questo spirito di solidarietà, la Chiesa è chiamata a farsi avvocato e strenuo difensore dei diritti degli uomini a muoversi liberamente all’interno delle proprie nazioni e, quando spinti da povertà, insicurezza e persecuzione, a lasciare le loro case in cerca del loro diritto, dato da Dio, a vivere con dignità. Da questo spirito, la Chiesa ha la responsabilità di assicurare che l’opinione pubblica sia adeguatamente informata sulle cause dell’emigrazione e sui fattori che costringono gli uomini a lasciare le loro case. Essa deve confrontarsi con il razzismo, la discriminazione e la xenofobia sempre e dovunque si manifestino: nelle comunità, nelle nazioni e in interi continenti. La fede cristiana chiede al fedele di guardare ai migranti non come a degli irregolari tra noi o a delle semplici vittime, ma come a degli esseri umani ai quali è dovuta una considerazione olistica per le loro necessità e le loro forze, e per i contributi economici, sociali e culturali che offrono alla società. Soprattutto, la solidarietà verso i migranti chiede di accompagnarli e coinvolgerli nel processo decisionale che tocca e governa le loro vite. Come ho già detto, solidarietà significa assumersi la responsabilità di chi si trova in situazioni difficili.
Nondimeno, citando Papa Benedetto XVI e il suo Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede all’inizio di quest’anno, leggo: “Purtroppo, soprattutto nell’Occidente, vi sono numerosi equivoci sul significato dei diritti umani e dei doveri ad essi correlati. Non di rado i diritti sono confusi con esacerbate manifestazioni di autonomia della persona, che diventa autoreferenziale, non più aperta all’incontro con Dio e con gli altri, ma ripiegata su se stessa nel tentativo di soddisfare i propri bisogni”[14]. L’emigrazione dovrebbe essere vista come un mezzo per arricchire il nostro patrimonio culturale. Quegli uomini e quelle donne che sono presenti tra noi, non sono solo manodopera, essi sono allo stesso tempo membri della nostra società. Non sono stranieri, ma nostri fratelli e sorelle. Questa è una chiamata a rivedere ancora una volta la loro situazione, a riconsiderare i loro diritti sociali in modo da impedire che diventino vittime del lavoro a basso costo per colpa del loro cosiddetto “status di residenza temporanea”. Solo così potremo cominciare a invertire il processo della loro emarginazione nella nostra società.
A questo scopo, richiamo le parole del Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, pronunciate in occasione della Giornata Internazionale del Migrante dell’anno scorso, celebrata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite: “Gli immigrati in Italia costituiscono una componente essenziale della popolazione, come forza lavoro e anche fonte di energia vitale per una società che invecchia. L’ostilità nei confronti dell’immigrazione deve perciò e ssere considerata un rifiuto della realtà, frutto di ingiustificate paure troppo spesso alimentate nel dibattito pubblico”[15]. Continuando il suo discorso, il Presidente italiano ha anche ricordato che, in un certo senso, il fenomeno dell’emigrazione è inevitabile. Quest’inevitabilità richiede, pertanto, di formulare una giusta legislazione, perché a coloro che vengono a lavorare in Italia sia garantito il rispetto che meritano, in accordo con le leggi e i regolamenti promulgati.
In modo analogo, la Chiesa riconosce il fenomeno dell’emigrazione come un autentico “segno dei tempi”. Lo si può vedere in diversi Paesi attraverso la sofferenza di chi è obbligato per varie ragioni a diventare migrante. A un tale segno, la Chiesa è chiamata a dare risposte comuni e creative, affinché la fede, la speranza e la carità dei migranti e di tutto il Popolo di Dio possano essere fortificate. Un segno così forte è, infatti, destinato a trasformare le strutture nazionali e internazionali, sociali, economiche e politiche, tanto da creare le condizioni richieste dallo sviluppo per tutti, senza esclusione e discriminazione nei confronti di qualsiasi persona in qualsiasi circostanza.
Per concludere il discorso di oggi, vorrei citare l’intervento della Delegazione della Santa Sede alla Novantesima sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro, che ha avuto luogo nel giugno 2002: “Non bisogna lasciare che la globalizzazione diventi un’ideologia, né a favore né contro il fenomeno. Dobbiamo piuttosto cercare di verificare obiettivamente dove la globalizzazione ha agito a beneficio di ampi settori della società e dove ciò non è avvenuto. Dobbiamo identificare perché e come la globalizzazione ha funzionato bene o ha funzionato male”[16]. Spero che la nostra riflessione di oggi, insieme alla dedizione e agli sforzi di ognuno di noi in favore di quanti si trovano “nella mobilità” in questo mondo sempre più globalizzato, possano portare frutti abbondanti e incoraggiare la crescita della mutua solidarietà e dell’amore cristiano.
Grazie per la vostra attenzione.
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NOTE
[1] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 1.
[2] Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale dell'Emigrazione (1996), n. 5 in: L’Osservatore Romano, n. 205 (41.044) del 6 settembre 1995, p. 6.
[3] Benedetto XVI, Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede (7 gennaio 2013) in: L’Osservatore Romano, n. 5 (46.249) del 7-8 gennaio 2013, p. 5.
[4] Cfr. Concilio Vaticano II, Nostrae aetate, n. 1.
[5] Giovanni Paolo II, Discorso al Segretario Generale delle Nazioni Unite e al Comitato Amministrativo di Coordinamento dell’ONU (7 aprile 2000), n. 1 in: L’Osservatore Romano, n. 83 (42.420) del 8 aprile 2000, p. 5.
[6] Giovanni XXIII, Lettera Enciclica Pacem in Terris, n. 12.
[7] Sacra Congregazione dei Vescovi, Istruzione sulla “Cura Pastorale dei Migranti”(1969), n. 7.
[8] Cfr. Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 65; Cfr. Sacra Congregazione dei Vescovi, Istruzione sulla “Cura Pastorale dei Migranti”(1969), n. 7.
[9] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2241.
[10] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2013, in: L’Osservatore Romano, n. 250 (46.196) del 29-30 ottobre 2012, p. 6.
[11] Cfr. Ibidem.
[12] Giovanni Paolo II, Discorso alla Sesta Sessione Pubblica delle Pontificie Accademie (8 novembre 2001), n. 2, in : L’Osservatore Romano, n. 257 (42.895) del 9 novembre 2001, p. 5.
[13] Cfr. Delegazione della Santa Sede, Intervento alla Sessione Annuale del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (18 luglio 2001),in: L’Osservatore Romano, n. 166 (42.804) del 22 luglio 2001, p. 2).
[14] Benedetto XVI, Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede (7 gennaio 2013) in: L’Osservatore Romano, n. 5 (46.249) del 7-8 gennaio 2013, p. 5.
[15] Napolitano, Giorgio, Messaggio in occasione della Giornata Internazionale del Migrante (18 dicembre 2012), citato dal: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Comunicato&key=14416.
[16] (traduzione dall’inglese) “Globalization must not be allowed to become an ideology, neither a pro-globalization ideology nor an anti-globalization ideology. We must rather attempt to verify objectively where globalization has worked for the benefit of broad sectors of society, and where it has not. We must identify why and how globalization has worked well or worked badly”. Delegazione della Santa Sede,Intervento alla 90ª Sessione della Conferenza Generale del Lavoro (17 giugno 2002) in: L’Osservatore Romano, n. 144 (43.080) del 23 giugno 2002, p. 2.