“Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore, le fotografie, le note disperate... Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola”.
Piace, a Stella Morra, la poesia di Derek Walcott, perché intimamente intrecciata a quel quotidiano dell’esistenza umana che ci fa sorridere o ci fa piangere, insomma alle “robe della vita”, le cui priorità occorre che la teologia tenga al centro. Sono questi gli interessi di studio di Stella: le pratiche religiose nella vita quotidiana e l’esperienza ecclesiale come mondo vitale.
E l’auditorio la sente, questa carica di vita, nella forza del suo parlare che è anche tanto simpatico, e suscita applausi e interesse vivo. Dice:
“La parola di Dio ospita le nostre vite, le nostre storie. Nella Scrittura viene raccontato molto della vita degli esseri umani: per questo ci sono tutti i tipi di violenza, perché ognuno di noi possa con le sue violenze, subite o inflitte, trovarsi a casa. Per questo ci sono testi di peccato, di ira, di gioia, di festa. L'idea che genera un altro stile è che la parola di Dio viene offerta perché ognuno possa esservi ospitato con la propria vita”.
Morra è sociologa e teologa, insegna alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Accanto all’attività accademica, svolge attività di formazione a vari livelli per diocesi e associazioni cattoliche e nell’Associazione Culturale L’Atrio dei Gentili.
E’ Vice presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane, che valorizza e promuove gli studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico, in prospettiva ecumenica e favorisce la visibilità delle teologhe nel panorama ecclesiale e culturale italiano.
Prof.ssa Morra, so che come me, ama Hanna Arendt, del cui pensiero una categoria portante è quella della “nascita”. Come applicarla a questa ri-nascita della Chiesa che potrebbe attuarsi in questo momento della sua storia davvero epocale?
Prof.ssa Stella Morra:Potrebbe concretizzarsi laddove il popolo di Dio si auto-comprendesse come una “comunità comunicativa” di grande accoglienza e bontà: la parola a me cara è “ri-generare benevolenza”: dovremmo riprendere questo senso di un legame più profondo, più umano, fatto di un'accoglienza reciproca più gratuita. La Chiesa, nella rinuncia al papato di Benedetto XVI, vive una transizione davvero epocale, oggi, con delle "forme" (solo la definizione di questa parola richiederebbe un vero e proprio saggio) che hanno esaurito il loro contributo positivo, forme che si sono andate assestando dal X-XI secolo e hanno avuto la loro crisi tra il XVI e il XVII. Noi siamo alla fine compiuta di questo processo di consunzione. Il concilio Vaticano II ci ha dato i criteri per il rinnovamento. Ma ora abbiamo davanti il compito di "fare" le nuove forme, con una domanda di creatività e di articolazione della fedeltà all'essenziale con la capacità di rischiare il nuovo, per una chiesa che possa essere più “plurale e plenaria”, con un paragone possibile, secondo me, solo nell'incontro del cristianesimo con la cultura greca del III-IV secolo».
In cosa il Concilio, a suo avviso, è ancora da attuare?
Prof.ssa Stella Morra:Sono tre i punti importanti a riguardo:
Primo: approfondire la Dignitatis Humanae e l'autentico senso del rispetto della coscienza, che metta al centro la vita e la benevolenza, insieme alle altre nozioni sulle quali è basato il documento, quali quelle di liberta, tolleranza, verità, dignità umana.
Secondo: comprendere con delicatezza l’umano: la Gaudium et Spes ci dice che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne del nostro tempo e soprattutto dei poveri, sono le stesse dei discepoli di Cristo. Afferma che noi non siamo la cittadella dei giusti di fronte alla quale bisogna scegliere da che parte stare, siamo solo una pallida luna che fa del suo meglio per fare un po’di luce, ma nel contempo stiamo nella notte come tutti.
Terzo: pensare un popolo di Dio radunato intorno all’Eucaristia e che sia gerarchicamente ordinato, quindi che abbia un centro, ma dove la soggettività di tutti abbia modo di esprimersi: una figura di Chiesa cioè che vada oltre il luogo costituito mettendo in circolazione parola e carità, tra parole sincere e parole vere. Noi siamo radicati con l'idea di una Chiesa che si articola territorialmente, e anche giuridicamente ha una forma geografica, come se fosse l'unica possibile.
Essa nasce solo nel secondo millennio; nella forma attuale non ha più di due secoli di vita. Dopo il Vaticano II i movimenti, ad esempio, sono andati a ricordarci che esiste un altro criterio, quello delle persone, delle relazioni, piuttosto che quello del territorio. Il Vaticano II ci dice: la Chiesa non è societas, per lo meno la figura della Chiesa attuale non può più essere solo quella di societas. E che deve avere la forma di un popolo. Ma nessuno riesce a immaginare cosa voglia dire. Il massimo che siamo riusciti a immaginare sono stati dei consigli, che sono le forme di partecipazione a una societas, non sono un popolo: è diverso! Per questo stiamo perdendo e il grande rischio per i giovani che si preparano al sacerdozio è quello di diventare dei funzionari: al di là della loro buona volontà e generosità personale, di essere mangiati vivi da una burocratizzazione dell'esperienza credente (con orari di ufficio, giorni di chiusura, ecc) che non riesce più a fare i conti con i poveri mentre la vocazione deve piuttosto, oltre ogni funzionalismo, mettere al centro il sé definito dal bisogno dell’altro.
(La seconda e ultima parte verrà pubblicata domani, giovedì 28 febbraio)