Riprendiamo di seguito il testo integrale della relazione tenuta ieri, 27 di febbraio, da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presso l'Istituto Teologico Pianum di Chieti.

***

È possibile educare o educarsi alla fede, se la fede è un dono? E, se è possibile, su quale fondamento lo si può affermare alla luce dal disegno divino rivelato nella storia? E in quale forma? Come si educa alla fede? Come si avanza nella fede? È a queste domande che cercherò di rispondere nelle riflessioni che seguono, valendomi di due riferimenti biblici: il Vangelo di Marco, Vangelo del catecumeno, per rispondere alla questione sulla possibilità e il fondamento dell’educazione alla fede; e l’icona dei Magi che da Oriente vanno a Gerusalemme e incontrano il Bambino a Betlemme, per comprendere come ci si educhi e si possa educare alla fede.

I - Educare alla fede: il Vangelo di Marco, itinerario del catecumeno

Educare alla fede è un compito e una sfida che s’impongono alla comunità cristiana sin dalle sue origini. Ne è testimone la stessa formazione degli scritti del Nuovo Testamento, in particolare dei Vangeli, che nascono precisamente come narrazione orientata a suscitare la fede in Gesù e ad introdurre in essa. “Marco - scrive il Card. Martini - presenta una catechesi, un manuale per quei membri delle primitive comunità che cominciano l’itinerario catecumenale… Matteo è il Vangelo del catechista: cioè, il Vangelo che dà al catechista un insieme di prescrizioni, dottrine, esortazioni. Luca è il Vangelo del dottore: cioè, il Vangelo dato a colui che vuole un approfondimento storico-salvifico del mistero, in una visuale più ampia. Giovanni è il Vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza”1. A motivare la genesi dei Vangeli è, insomma, un’intenzione pedagogica, un atto d’amore: chi narra la vicenda di Gesù lo fa per rendere partecipi i destinatari dell’esperienza, che gli ha trasformato la vita. Quest’aspetto pedagogico è particolarmente evidente nel vangelo di Marco, il più breve dei quattro, il più antico, costituito da un racconto scarno e coinvolgente: “Marco il primo di questi quattro manuali… è centrato su un itinerario catecumenale”2. Proprio così, il secondo Vangelo si presenta come un cammino, che parte dalle domande del narratore e del destinatario, impegna i due nella ricerca e culmina nell’incontro col Risorto, da cui tutto nasce e a cui tutto è orientato…

Si tratta di un cammino coinvolgente, che pone davanti a decisioni da prendere riguardo alla propria vita. In questo senso, il racconto di Marco è “come un dramma, dove l’esito finale non è scontato… Ogni lettore è invitato a fare il percorso dei personaggi del dramma sia nella ricerca della vera identità di Gesù sia nella scoperta della propria identità”3. In questa luce, Pietro - figura centrale del racconto - appare come la voce del catecumeno, che si apre progressivamente e non senza fatica ad accogliere la rivelazione del Figlio di Dio. “Il vangelo di Marco si presenta come la traccia di un cammino che va dalla paura e dal dubbio alla gioia e alla pace dell’incontro… Il dramma di Gesù Cristo si presenta come la parabola che ogni essere umano è chiamato a fare: perdere la sua vita per ritrovarla”4. La via che Gesù percorre dalla Galilea fino a Gerusalemme non è, insomma, un puro e semplice tracciato geografico e cronologico, è anche un percorso dell’anima, che stimola alla “sequela”.

Si potrebbe affermare che - proprio a questo scopo - il Gesù di Marco propone la sua identità come velata, in un itinerario progressivo, per proporsi alla libertà dell’assenso e non imporsi ad essa. Al culmine si trova un’esplicita confessione di fede, posta in bocca a un pagano, il Centurione romano ai piedi della Croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Questa confessione è annunciata sin dall’inizio del Vangelo: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). L’itinerario che porta alla professione finale è costituito da un alternarsi di rivelazione e di nascondimento, che è stato definito “segreto messianico”5. Con quest’espressione s’intende l’atteggiamento tenuto da Gesù durante il suo ministero pubblico per tenere nascosta la sua identità di Messia talvolta ai discepoli (Mc 8,29-30), talvolta ai miracolati (Mc 1,44; 5,43; 7,36; 8,26), talvolta ai demoni esorcizzati (Mc1,25; 1,34; 3,12), e dichiararla infine al momento in cui inizia la sua passione, quando è abbandonato dalla folla e dai discepoli. Allora, Gesù si manifesta apertamente come il Cristo-Messia: “Il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: ‘Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?’ Gesù rispose: ‘Io lo sono!’” (Mc 14,61-62).

Quello che Marco propone è un itinerario mistagogico. “Nella prima parte si tratta di riconoscere progressivamente chi è Gesù. Quindi, una volta riconosciuto, Gesù trascina i discepoli e destinatari a camminare dietro a lui, percorrendo la strada fino alla Croce”6. Ci si può allora chiedere come venisse utilizzato “questo testo nella comunità o nelle comunità che l’hanno visto nascere”7. Sul piano letterario, il vangelo di Marco contiene tutti i segni distintivi che ne fanno un discorso e un’azione drammatica, che richiede di essere proclamata in una sola volta, d’un fiato. Un’ipotesi suggestiva è che il racconto di Marco venisse letto durante la notte di Pasqua, nella veglia fra il sabato e la domenica di resurrezione. Per alcuni degli ascoltatori, nuovi membri della comunità, tale notte era il punto d’approdo dell’iniziazione cristiana: al termine della lettura integrale del racconto evangelico sarebbero stati battezzati e chiamati a partecipare per la prima volta al banchetto eucaristico. Come la struttura della cena pasquale ebraica comprendeva un racconto drammatico, l’“haggadah” (“narrazione”), che costituiva il filo conduttore del rito, così la veglia pasquale cristiana delle origini avrebbe previsto un’analogo racconto, quello del Vangelo di Marco appunto. “Dopo la lettura del Vangelo di Marco - ritiene Standaert -, ci si recava al fiume o al mare per battezzare i catecumeni e poi ci si ritrovava tutti insieme per il banchetto eucaristico celebrato il mattino presto”.

Il secondo Vangelo non è, insomma, una semplice raccolta informativa: l’itinerario proposto vuole essere performativo, tale cioè da indurre l’ascoltatore a decidere della sua stessa vita davanti a Gesù, il Figlio di Dio. Dall’incontro con questo racconto non si esce indenni: chi ne fa una lettura di fede, ne è segnato in maniera profonda. In esso tutto nasce dall’amore del Dio che si rivela e da cui il narratore è stato toccato e trasformato e tutto ha per scopo di suscitare nei cuori questo amore. Si può dedurre da questo che nell’educazione alla fede tutto nasca dall’amore e tenda all’amore. È per amore che Dio si è rivelato agli uomini col desiderio di farli partecipi della Sua vita. È per amore che chi crede - al pari degli Evangelisti - vorrebbe trasmettere il dono ricevuto agli altri, introducendoli nell’esperienza della carità di Dio. È per un profondo bisogno di amore che ci si mette alla ricerca del Volto divino. Alle sorgenti di ogni educazione alla fede c’è l’amore. Spesso si tratta di un amore ferito: quello, ad esempio, dei genitori credenti che vedono i loro figli allontanarsi dalla vita di fede o quello di chi ha responsabilità pastorali e sperimenta quanto sia difficile a volte trasmettere il dono della fede agli altri, specialmente ai giovani, nella complessità del tempo che viviamo. Eppure, il desid erio di comunicare la bellezza della fede sfida quest’amore ferito e lo spinge a non arrendersi. Spesso, chi si allontana da Dio lo fa perché non ha mai veramente sperimentato la grandezza del Suo dono. Non si esagera nel pensare che tante volte l’amore divino è più ignorato che consapevolmente rifiutato!

Educare alla fede vorrà dire, allora, far conoscere credibilmente quest’amore con la testimonianza della parola e della vita, attrarre ad esso, comunicarlo con l’eloquenza silenziosa di chi ne fa esperienza e ne irradia la bellezza in maniera credibile. Educarsi alla fede, a sua volta, significherà accettare la sfida di mettersi alla ricerca dell’infinito amore, aprendosi a tutti gli aiuti possibili sulla via dell’incontro sempre più profondo con Dio. Alla luce del carattere performativo del vangelo di Marco si può affermare, insomma, che l’educazione alla fede è un itinerario non solo possibile, ma necessario, e che esso nasce dalla volontà di Cristo e dal Suo amore, per culminare nell’esperienza crescente di questo stesso amore, che libera e salva.

II - Educare alla fede: le tappe di un cammino

L’itinerario dell’educazione alla fede, di cui il vangelo di Marco ci offre il modello normativo, avviene necessariamente per tappe. Queste muovono dall’esperienza fontale dell’incontro col Risorto e tendono a suscitarla sempre di nuovo, tanto in chi educa, quanto in chi viene educato. Per descrivere queste tappe ricorro a un’icona biblica, tratta dal Vangelo secondo Matteo (2,1-12): quella dei Magi che dal lontano Oriente vanno a Betlemme, guidati da una stella. Nella sua essenzialità narrativa, essa consente di riconoscere sei tappe costitutive dell’educazione alla fede in Cristo e alla sequela di Lui.

1. Da Oriente a Gerusalemme: il punto di partenza, ovvero la domanda originaria. e la meta dell’educazione alla fede. Stando al racconto evangelico i Magi vengono “da oriente a Gerusalemme”: “Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme” (Mt 2,1). Nell’immaginario biblico l’Oriente, lì dove sorge il sole, è il luogo dell’originario, dove tutto comincia. In questo senso i Magi sono figura di quanti, muovendo dalle esigenze originarie, costitutive dell’essere umano, vanno verso la Città di Dio. Non si azzarda, allora, nel riconoscere nei Magi la figura di ogni onesto cercatore di Dio, mosso dal bisogno radicale, di cui si fa voce Sant’Agostino all’inizio delle sue Confessioni: “Ci hai fatto per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposi in Te” (I, 1). Il richiamo alla provenienza da Oriente dice, inoltre, che i Magi si sono messi in cammino lasciando il loro mondo vitale, l’insieme delle loro sicurezze e delle loro abitudini radicate. Non si va alla ricerca di Dio senza prendere una decisione, senza fare un taglio, sradicandosi dal contesto rassicurante del piccolo universo che ci è proprio, per aprirsi al rischio della ricerca del Volto desiderato e nascosto. Il viaggio di ogni cercatore di Dio va dal proprio Oriente - e dunque dagli abissi del proprio cuore, dalle domande più profonde che ci abitano - verso la “città di Davide” (Luca 2,11), vero concentrato della rivelazione divina. Proviamo a chiederci: qual è il nostro Oriente? Quali sono le domande più vere e importanti che riconosciamo nel nostro cuore? Abbiamo mai scelto veramente di muoverci da dove siamo verso la Città di Dio, incontro al Suo dono d’amore? Siamo pronti a lasciare le nostre certezze per vivere l’avventura della ricerca dell’amore più grande, quello che solo Dio potrà darci? Porre questi interrogativi e rispondere ad essi è l’inizio dell’educazione alla fede, stimolo a prendere la decisione necessaria per andare dal nostro oriente verso la Città di Dio. Eppure, solo in questa decisione che ci fa cercatori del Volto nascosto, mendicanti del cielo, si realizza la nostra vera e piena umanità. Lo esprimono questi versi di Margherita Guidacci:

Come onde la tua riva tocchiamo,
ogni istante è confine tra l’incontro e l’addio.
Dal nostro mare in te fuggire, nel nostro mare fuggirti:
Non altro è di noi labili il destino.
Né tregua mai ci è data, anche se amore
Od altra arcana ansia più lontano ci spinse
Sulle tue sabbie, in vista delle torri
Della superba tua città. Ché ancora
Indietro ci trascina il nostro peso
Nel mutevole abisso –
Siamo di nuovo desiderio e lamento8.

2. Pellegrini nella notte, guidati dalla stella. . I Magi compiono il loro viaggio lasciandosi guidare da una stella: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2.9-10). Abbiamo qui alcune indicazioni importanti sulle condizioni della ricerca di Dio, e dunque dell’educazione alla fede: il cammino ha bisogno d’una guida. Il fatto che a guidare i Magi sia una stella, mostra come il percorso si svolga di notte: la via verso la fede non è un itinerario luminoso. Occorre avanzare nell’oscurità, pellegrini verso la luce, di cui la stella è annuncio e promessa. Che cos’è la stella? Nell’immaginario biblico essa sta a dire un segno che viene dal cielo, raggiungendo gli uomini nell’oscurità della loro esperienza per condurli dove il Signore li chiama. C’è un linguaggio di Dio nella natura e nelle vicende umane che dobbiamo imparare a conoscere: da una parte, si tratta della “silenziosa scrittura dei cieli”, cantata ad esempio dai Salmi (“I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento”: 19,2), della testimonianza, cioè, che il creato rende al Creatore col fatto stesso di esistere. Dall’altra, si tratta dei “segni dei tempi” con cui il Signore raggiunge i cercatori del Suo volto per indicare loro la strada nella complessità delle opere e dei giorni. Come afferma il Concilio Vaticano II, “è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo” (Costituzione Gaudium et Spes 4). La stella guida il cammino dei cercatori di Dio, affacciandosi nei segnali di attesa che spesso gli uomini manifestano per dare un senso alla vita e nella ricerca di una giustizia più grande per tutti, oltre che nelle testimonianze di amore che tante volte illuminano perfino le situazioni più tristi e difficili. Inoltre, seguire la stella per andare verso il Bambino che nascerà lì dove essa si poserà, vuol dire anche uscire da sé per andare verso l’altro, soprattutto piccolo e debole. Aprirsi alla fede o educare altri ad essa vuol dire anche mettersi in ascolto della natura e della storia e impegnarsi ad andare verso gli altri con scelte e gesti in cui esprimere il dono di sé. Renzo Barsacchi, il poeta toscano in cui fede e poesia s’incontrano spesso in modo struggente, in una poesia dal titolo Tu puoi soltanto attendere richiama questa continua ricerca di segni, che l’amore esige nella nostra vita, e la certezza che questo bisogno non viene da noi, ma ci raggiunge come dono da accogliere in segni sempre nuovi, da riconoscere come stella sul cammino delle notti:

Il tempo è incerto. In bilico il sereno
e la pioggia. Ma né l’uno né l’altro
dipendono da te.
Tu puoi soltanto attendere, scrutando
segni poco leggibili nell’aria.
Ti affidi al desiderio
ascoltando il timore. Le tue mani
sono pronte a difendersi e ad accogliere.
Così non sai quando Dio ti prepari
una gioia o un dolore e tu stai quasi
origliando alla porta del suo cuore,
senza capire come sia deciso
da quell’unico amore,
lo splendore del riso o delle lacrime9.

3. La notte del mondo e la Parola di Dio. Bisogna ammettere che questo “ascolto dei segni” non è sempre facile. Perfino il dono di sé può restare qualcosa di ambiguo e faticoso nel cammino verso Dio. La notte che copre la storia talvolta è veramente buia. Ecco, allora, che il Signore ci offre un aiuto decisivo per arrivare a credere in Lui: si tratta della Sua Parola, della rivelazione storica del Suo Volto, che si è compiuta attraverso eventi e parole intimamente connessi, di cui ci dà testimonianza la storia della salvezza, presentata nella Bibbia. Anche i Magi ne hanno avuto bisogno, tant’è vero che seguono il suggerimento dei capi dei sacerdoti e degli scribi del popolo, consultati da Erode, circa il luogo in cui doveva nascere il Cristo: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele» (Matteo 2,5-6). Il testo citato per indicare il luogo dell’incontro col Messia è tratto dal profeta Michea (5,1-3) e contiene diverse risonanze bibliche (2 Samuele 5,2; 1Cronache 11,2). La storia dei Magi viene così a dirci che nella notte del tempo la Parola di Dio è veramente lampada ai nostri passi e luce sul nostro cammino (cf. Salmo 118,105). Chi vuol incontrare il Dio vivente, deve fidarsi della Sua Parola, mettersi in ascolto umile, perseverante e fiducioso di essa. Imparare dalle Sacre Scritture il linguaggio di Dio, aiuta a riconoscere gli appuntamenti con la Sua Grazia. Chi accoglie la rivelazione divina nella Bibbia sa di non essere mai solo, perché la Parola del Dio vivente lo raggiunge, abita il suo cuore e gli dona occhi per vedere e credere e lasciarsi guidare dall’Amato ai pascoli della vita che vince e vincerà la morte. Per chi vuol educarsi ed educare altri alla fede è indispensabile il riferimento al testo biblico, sorgente di luce nell’andare verso l’incontro con Dio. Veramente

lampada per i miei passi è la tua parola,
luce sul mio cammino (Salmo 118/119, 105).

4. L’incontro con Erode: la tentazione in agguato. È a questo punto che nella vicenda dei Magi si colloca un incontro pericoloso, che potrebbe avere conseguenze drammatiche. Essi si recano a Gerusalemme in cerca di maggiori ragguagli sulla loro destinazione. Sono ancora nella situazione in cui la Parola di Dio non ha rischiarato loro pienamente la strada, pur segnalata nelle coordinate fondamentali dalla stella. Nella Città Santa risuona la loro domanda: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo…». Si inserisce qui l’azione del re Erode, simbolo non solo del potere, ma del delirio di onnipotenza che esso può suscitare, lì dove il cuore si chiuda al riconoscimento onesto del dovere di obbedire alla Verità al di sopra di tutto. Erode è turbato dalla richiesta dei Magi, vi intuisce un pericolo per la sua autorità. Si finge cercatore del vero, ma in realtà l’indagine che svolge presso gli esperti della Legge è finalizzata solo a saperne di più per intervenire a tutela della sua smisurata volontà di potenza. A tal fine vorrebbe utilizzare anche i Magi: «Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”» (vv. 7-8). Sulla via della ricerca di Dio il vero possibile rischio è fare del nostro “io” e delle sue ambizioni l’idolo cui sacrificare ogni cosa. Questa tentazione può presentarsi nelle forme più diverse, ma la molla che vi agisce è sempre la stessa: l’orgoglio. È la tentazione diabolica, la pretesa di voler essere come Dio, quella che raggiunse la creatura umana sin dal primo mattino del mondo (cf. Genesi 3). Il seguito del racconto ci mostra come i Magi abbiano saputo schivarla, riconducendo le richieste di Erode alla loro vera misura, quella di un delirio accecante che nega l’evidenza del primato di Colui che ci trascende tutti. Il cercatore di Dio o sarà umile e impegnato a vincere le trappole dell’orgoglio, o non arriverà mai alla meta, sciupando quanto di più bello può esserci nell’esistenza umana. E questo esigerà una continua vigilanza e una continua lotta. L’amore di cui la fede è espressione, porta con sé l’esigenza ineludibile di conoscere la ferita del cuore. Esprimono l’idea che ogni relazione d’amore - in particolare quella con Dio - va vissuta come unità di vita e di morte a favore della vita, questi bellissimi versi di Elena Bono:

Quando tu mi hai ferita?
Forse ero ancora nel seno di mia madre
o forse solo nei tuoi pensieri.
Tu mi amasti da sempre.
Io non ho che un piccolo tempo da darti
ed un piccolo amore.
Ma mi perdo nel tuo,
questo mare che brucia
e di sé si alimenta.
Allorché mi feristi
io non sapevo
quanto il tuo amore facesse male.
Ed è questo che vuoi,
soltanto questo in cambio dell’infinito amore:
che io soffra l’amor tuo,
che me lo porti come piaga profonda
e non la curi10.

5. L’incontro con Dio: la gioia, la comunità, l’umiltà, l’adorazione e il dono di sé. Il racconto di Matteo prosegue: «Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (vv. 9-11). Si riconoscono qui, nella semplicità del racconto, le caratteristiche fondamentali dell’incontro con Dio, grazie al quale cambia tutto: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est, 1). Innanzitutto, s’affaccia la gioia: incontrare l’Amato, desiderato e cercato, è fonte di grandissima gioia, perché vuol dire sentirsi raggiunti da un amore infinito, da un’indicibile bellezza. Niente dà al nostro cuore tanta gioia quanto il riconoscerci amati e l’amare. Perciò l’esperienza della fede è così bella e vale la pena di accettare ogni sacrificio per educarci ad essa e comunicarla ad altri: in Dio si trova la vera gioia, il senso d’esistere, l’amore che è origine, grembo e patria della vita presente e di quella che ci attende oltre la morte. La gioia accompagna il passo successivo, semplice e concreto: entrare “nella casa”. Tenendo conto dell’immagine della Chiesa come “casa, edificio”, presente in Matteo (cf. 16,18: “su questa pietra edificherò la mia Chiesa”), vorrei vedere qui espressa la necessità della comunità ecclesiale nell’educazione alla fede. La Chiesa è luogo e segno della presenza di Cristo, della Parola che salva, dell’incontro col Risorto attraverso i segni sacramentali e l’amore fraterno. È la Chiesa ad affidare il servizio dell’annuncio / testimonianza / educazione, che parli attraverso la vita. La fede è donata e nutrita nella Chiesa, “comunità educante”. Senza la comunione vissuta nella Chiesa Madre, l’educazione alla fede rischia di naufragare nell’individualismo o nell’evasione consolatoria! All’interno della casa la gioia dei Magi alla vista del Bambino con la Madre si esprime nel bisogno dell’adorazione: essi si prostrano in segno di profonda umiltà e adorano il Piccolo, riconoscendo l’assoluta sovranità dell’Amore incarnato di Dio davanti a cui sono giunti. Umiltà e stupore adorante sono i due atteggiamenti fondamentali della preghiera, espressione e nutrimento della fede: con l’umiltà confessiamo il nostro niente; con l’adorazione ci lasciamo colmare dal tutto di Dio. Vivere una simile esperienza genera il bisogno di rispondere all’amore con l’amore, offrendo a Dio i doni dello scrigno del nostro cuore. La tradizione cristiana ha letto nell’oro, nell’incenso e nella mirra offerti dai Magi i simboli del triplice riconoscimento di cui vive la fede nel Figlio di Dio fatto uomo per noi: «La mirra, perché in quanto uomo era destinato a morire ed essere sepolto; l’oro, poiché era il re, il cui regno non avrà fine; e l’incenso, poiché era Dio, che si è fatto conoscere in Giudea» (Sant’Ireneo di Lione, Adversus Haereses III, 9, 2). I doni dei Magi sono simbolo del totale coinvolgimento dell’uomo nella risposta all’amore di Dio, che dona tutto e chiede tutto. Questo giocarsi tutto nell’atto d’amore a Colui che è amore, è espresso da versi come questi di Ada Negri:

Non seppi dirti quant’io t’amo, Dio
nel quale credo, Dio che sei la vita
vivente, e quella già vissuta e quella
ch’è da viver più oltre: oltre i confini
dei mondi, e dove non esiste il tempo.
Non seppi; - ma a Te nulla occulto resta
di ciò che tace nel profondo. Ogni atto
di vita, in me, fu amore. Ed io credetti
fosse per l’uomo, o l’opera, o la patria
terrena, o i nati dal mio saldo ceppo,
o i fior, le piante, i frutti che dal sole
hanno sostanza, nutrimento e luce;
ma fu amore di Te, che in ogni cosa
e creatura sei presente. Ed ora
che ad uno ad uno caddero al mio fianco
i compagni di strada, e più sommesse
si fan le voci della terra, il tuo
volto rifulge di splendor più forte,
e la tua voce è cantico di gloria.
Or - Dio che sempre amai - t’amo sapendo
d’amarti; e l’ineffabile certezza
che tutto fu giustizia, anche il dolore,
tutto fu bene, anche il mio male, tutto
per me Tu fosti e sei, mi fa tremante
d’una gioia più grande della morte.
Resta con me, poi che la sera scende
sulla mia casa con misericordia
d’ombre e di stelle. Ch’io ti porga, al desco
umile, il poco pane e l’acqua pura
della mia povertà. Resta Tu solo
accanto a me tua serva; e, nel silenzio
degli esseri, il mio cuore oda Te solo11.

6. Fecero ritorno al loro paese per un’altra strada: vivere la fede nella quotidianità. La storia dei Magi non termina qui. C’è un seguito molto importante per chi si riconosce al pari di loro “cercatore di Dio”: «Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese» (v. 12). Due aspetti vanno sottolineati: l’incontro con Dio non fa evadere dalla storia, dagli impegni della quotidianità e dalle responsabilità a cui si è stati chiamati. Il ritorno dei Magi al loro paese dice precisamente questo, escludendo ogni concezione consolatoria della fede, che ne faccia un rifugio per sottarsi ai propri doveri e alla rete di amore, in cui ciascuno è posto. L’eternità, cui siamo chiamati, si esprime sempre in un giorno, l’oggi in cui vivere il sì a Dio nella fede e testimoniare agli altri la bellezza del Suo amore mediante la carità. L’altro elemento che il racconto ci fa capire è che il ritorno alla vita ordinaria dopo l’incontro con il Signore avviene “per un’altra strada”. Si è gli stessi, eppure non più gli stessi, se si è vissuto l’incontro col Dio vivente. Ormai, non c’è Erode che tenga per trattenere chi ha incontrato il Signore nella logica dell’egoismo e dell’avidità che tutto rapporta alle brame del proprio “io”. Incontrare il Figlio di Dio nel Bambino di Betlemme significa riconoscere l’umiltà del Dio incarnato e lasciarsi trasformare dal Suo dono, per diventare una creatura nuova, che canta con la vita il cantico nuovo di chi è stato reso nuovo dallo Spirito di Dio. Il cammino della vita sarà un continuo, sempre nuovo incontro con l’Amato, se custodiremo con fedeltà il dono ricevuto, ravvivandolo ogni giorno. Allora, avvertiremo il bisogno di chiedere a Colui che si è donato a noi il dono di questa fedeltà, nell’esperienza sempre nuova del Suo amore. Allora, potremo trasmettere ad altri la fede, come irradiazione del nostro cuore umile, innamorato di Dio, nella certezza che il protagonista principale dell’incontro col Signore resta Lui, che agisce col Suo Spirito nei nostri cuori. Possiamo, così, far nostre le parole che Giovanni Papini - ateo militante convertito clamorosamente alla fede nel 1921 - scrisse nello stesso anno della sua conversione, al termine della sua Storia di Cristo:

Gesù, sei ancora, ogni giorno, in mezzo a noi. E sarai con noi per sempre… Noi abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo… Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che lo sanno… Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica verità degna d’esser saputa; e chi s’affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro… La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d’una promessa e d’una minaccia s’è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d’un tuo ritorno… Noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore12.

*

NOTE

1 C.M. Martini, L’itinerario spirituale dei Dodici, Borla, Roma 1981, 7s.

2 Ib.

3 R. Fabris, Marco, Cittadella Editrice, Assisi 2005, 14.

4 Ib., 15.

5 La formula fu coniata da W. Wrede, Il segreto messianico nei Vangeli, D’Auria, Napoli 1995: originale tedesco Das Messiasgeheimnis in den Evangelien, 1901; 1994.

6 B. Standaert, Il Vangelo secondo Marco, Borla, Roma 1984, 43.

7 Prefazione all’opera monumentale dello stesso Standaert, Marco, vangelo di una notte, vangelo per la vita, cit.

8 All’eterno, Paglia e polvere, Rebellato, Padova 1961.

9 Marinaio di Dio, Nardini, Firenze 1985, 74.

10 I galli notturni, Garzanti, Milano 1952, 77.

<a href="#sdfootnote11anc">11 A. Negri, Il dono, in Poesie, Mondadori, Milano 19663, 847s.

12 G. Papini, Storia di Cristo, 540. 549, parole conclusive. Pubblicata per la prima volta nel 1921 e più volte ristampata (cf. Vallecchi, Firenze 2007), l’opera è considerata il "libro della r edenzione" dello scrittore più irriverente del Novecento italiano.