Il Papa ha espresso “grande gioia” nel vedere “tanti giovani che camminano verso il sacerdozio”, che sono attenti alla “voce del Signore” e cercano la strada per servire il Signore in questo nostro tempo.
Affrontando il tema, il Vescovo di Roma ha rilevato che questa lettera è quasi “una prima enciclica, con la quale il primo apostolo, vicario di Cristo, parla alla Chiesa di tutti i tempi”.
Pietro – ha precisato il Papa – parla come “primo in nome della Chiesa futura”. Pietro “che ècaduto, che ha negato Gesù e che ha avuto la grazia diessere toccato nel suo cuore e di avere trovato il perdono e un rinnovamento della sua missione”.
In merito alle critiche secondo cui questa Lettera non può essere di Pietro, perché il greco è talmente buono che non può essere di un pescatore del Lago di Galilea, che la struttura ed il pensiero sono sofisticati, Benedetto XVI ha spiegato che alla fine dello Scritto Pietro dice: “Vi scrivo tramite Silvano – dia Silvano”.
Questo tramite mostra che Pietro non è stato solo nello scrivere questa Lettera, e che “non parla come genio individualistico, ma parla proprio nella comunione della Chiesa”.
Secondo il Pontefice è importante anche notare che nella Lettera vengono nominati Silvano e Marco, due persone che appartengono anche alle amicizie di san Paolo. Questo mostra che “non è una teologia esclusivamente petrina contro una teologia paolina, ma è una teologia della Chiesa, della fede della Chiesa”, diversi carismi,diversi temperamenti, “ma tuttavia non sono contrastanti e si uniscono nella comune fede”.
Rilevante per il Pontefice anche il fatto che “san Pietro scrive da Roma” perché “abbiamo già l’inizio del primato concreto collocato a Roma, non solo consegnato dal Signore, ma collocato qui, in questa città, in questa capitale del mondo”.
Il Papa interpreta il passaggio da Gerusalemme a Roma come il passaggio “all’universalità della Chiesa, il passaggio alla Chiesa dei pagani e di tutti i tempi, alla Chiesa anche sempre degli ebrei (…) Gerusalemme/Roma, Chiesa giudeo-cristiana/Chiesa universale”.
Andando avanti nella lectio divina, il Pontefice ha spiegato il significato di essere “eletti “ nel senso che “Dio ha pensato a me, ha eletto me come cattolico, me come portatore del suo Vangelo, come sacerdote”.
Parlando dei nostri tempi ha aggiunto che “siamo tentati di dire: non vogliamo essere gioiosi di essere eletti, sarebbe trionfalismo” in realtà i cattolici devono “Essere gioiosi”.
“Dobbiamo essere gioiosi – ha affermato il Papa – perché Dio mi ha dato questa grazia, questa bellezza di conoscere la pienezza della verità di Dio, la gioia del suo amore”.
Parlando dell’eredità e del futuro Benedetto XVI ha sottolineato che “essendo cristiani, sappiamo che nostro è il futuro e l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo”.
Quindi non c’è motivo di lasciarsi impressionare – come ha detto Papa Giovanni – dai ”profeti di sventura”, perché “La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro”.
Il Vescovo di Roma ha illustrato che esiste un falso ottimismo e un falso pessimismo.
“Un falso pessimismo che dice: il tempo del cristianesimo è finito. No: comincia di nuovo!”
“Il falso ottimismo era quello dopo il Concilio, quando i conventi chiudevano, i seminari chiudevano, e dicevano: ma … niente, va tutto bene … No! Non va tutto bene”.
“Dobbiamo riconoscere con sano realismo – ha sottolineato il Papa – che così non va, non va dove si fanno cose sbagliate. Ma anche essere sicuri, allo stesso tempo, che se qua e là la Chiesa muore a causa dei peccati degli uomini, a causa della loro non credenza, nello stesso tempo, nasce di nuovo”.
“Il futuro è realmente di Dio – ha concluso Benedetto XVI – questa è la grande certezza della nostra vita, il grande, vero ottimismo che sappiamo. La Chiesa èl’albero di Dio che vive in eterno e porta in sé l’eternità e la vera eredità: la vita eterna”.