Riprendiamo l’omelia tenuta da monsignor Massimo Camisasca, vescovo della diocesi di Reggio Emilia–Guastalla, nella Messa per la festa del beato cardinale Andrea Carlo Ferrari, celebrata domenica 3 febbraio nella tensostruttura di Guastalla.
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Cari fratelli e sorelle,
sono molto contento di tornare qui, in mezzo a voi, dopo aver celebrato assieme il santo Natale. Saluto il parroco, don Alberto, il viceparroco don Carlo e gli altri sacerdoti presenti da tutto il vicariato.
È per me motivo di grande gioia fare il mio ingresso ufficiale a Guastalla proprio nella festività liturgica del beato cardinal Ferrari. I santi sono l’onore e la gloria di un popolo. Sono l’espressione più alta, più nobile e più trasparente della sua grandezza. Soprattutto essi sono un segno della benedizione e della misericordia di Dio.
Se voglio conoscere voi, dunque – se voi stessi volete conoscere più in profondità chi siete – devo e dobbiamo guardare ai santi che sono passati dalla nostra terra. Tra questi certamente il cardinal Ferrari è uno dei più grandi. Non ho la pretesa di insegnare a voi chi sia stato il vescovo Ferrari, desidero piuttosto impararlo da voi e con voi e assieme metterci alla sua scuola.
Molte ragioni mi legano alla figura del vescovo Ferrari. Ragioni personali, che ho già accennate quando sono venuto qui un mese e mezzo fa, e ragioni più oggettive, sulle quali oggi vorrei brevemente soffermarmi.
Andrea Carlo Ferrari collega la terra lombarda dalla quale provengo a questa terra emiliana dove ora Dio mi ha chiamato a prendermi cura del suo popolo. Devo confessarvi che quando il santo Padre mi ha comunicato la mia elezione a vostro vescovo, dopo un primo momento di comprensibile turbamento, il mio pensiero è andato a lui, al vescovo di cui sarei dovuto diventare successore. Sin da bambino infatti la sua figura mi era diventata cara grazie alla devozione dei miei genitori.
Ma ci sono ragioni ancor più profonde che mi legano al beato Cardinal Ferrari. Come sapete dalla prima lettera che ho scritto a tutta la Diocesi il giorno della mia nomina, a lui ho affidato le primizie del mio ministero episcopale. Da lui voglio imparare che cosa sia un padre.
Vescovo fermo, deciso, coraggioso. Infaticabile, tanto da meritarsi il nomignolo di “moto perpetuo” (cfr. P. Liggeri, Non si è spenta la sua voce. Profilo del cardinale Andrea Ferrari, 1987). Grande oratore e padre appassionato. Uomo dell’azione e della preghiera. Così viene descritto nelle tante testimonianze di chi lo ha conosciuto. La quasi totalità delle biografie e degli scritti sul beato vescovo si concentrano, giustamente, sul ministero milanese del novello san Carlo.
Nominato vescovo di Guastalla da Leone XIII nel 1890, rimase qui, infatti, solo pochi mesi. L’anno successivo, con suo grande dolore, fu eletto vescovo di Como e, nel 1894, cardinale arcivescovo di Milano. È nella diocesi ambrosiana, dunque, che egli ha vissuto la maggior parte degli anni del suo episcopato. Tuttavia penso che quanto si dipanerà negli anni successivi, sia già pienamente visibile e lucidamente espresso nelle dense lettere pastorali che egli scrisse a questa diocesi durante i suoi primi mesi da vescovo e in quelli successivi.
Trasferito a Como, continuò ad essere amministratore apostolico di Guastalla e si prese cura ancora a lungo di questa terra. In particolare negli scritti di questo periodo sentiamo risuonare le due parole che più caratterizzano l’intero ministero episcopale di Andrea Ferrari: azione e preghiera. In esse troviamo il cuore del santo vescovo, il segreto del suo infaticabile spendersi, del suo affrontare a testa alta anche le situazioni più difficili.
Scrivendo ai parroci della Diocesi, in una lettera del 1° novembre 1890, nella quale – come spesso avveniva – il beato pastore si faceva eco delle parole del Santo Padre Leone XIII, egli stesso si concentra proprio su queste due parole chiave per comprendere la sua figura: «Inculca l’azione; perché, se il nemico non fa tregua, nessuno di noi deve rimanere silenzioso o inerte… Inculca la preghiera: ascoltiamola tutti questa raccomandazione, e pratichiamola, e voi fatela praticare dai fedeli vostri sudditi».
La coniugazione di preghiera e azione fu il vero segreto del suo ministero. Dalla preghiera traeva l’energia e la prudenza necessarie per agire prontamente, discernendo in ogni cosa la volontà di Dio. Ciò gli donava pace e letizia. Anche nei momenti di maggior fatica, esse trasparivano dalla pacatezza della sua parola e dal continuo desiderio di incontrare le persone.
Negli oltre trent’anni del suo episcopato ricercò sempre l’incontro personale con il suo popolo, diventando per tutti un padre fermo e nel contempo tenero. Una dolce fermezza fu sempre la cifra della sua azione pastorale. In un’epoca di grandi mutamenti sociali e culturali, che avevano creato non poche divisioni all’interno della stessa Chiesa, seppe sempre indicare con convincente sicurezza la direzione nella quale camminare.
Il contatto diretto con la gente gli permise di cogliere con profetica intelligenza le istanze più profonde del suo tempo e di corrispondervi con un’efficace e sempre nuova azione pastorale. Il suo cuore di padre, nel quale l’amore per Dio e quello per il suo popolo erano così congiunti da non potersi più distinguere, era un continuo laboratorio di idee, proposte, esortazioni. Ne sono testimonianza le tante opere da lui nate, opere di educazione, di carità, di rinnovamento culturale ed ecclesiale.
Non vi era categoria di persone o campo dell’umano per il quale non avesse una parola, un consiglio, una correzione da suggerire. Egli aveva ben presente che Gesù è venuto per ognuno e che solo aprendosi a lui l’uomo poteva realizzarsi, solo guardando a Cristo le strutture sociali, politiche e culturali potevano conseguire il loro scopo. Ma perché ciò si realizzasse il vescovo doveva tornare a vivere in mezzo alla gente, educare il popolo ad una coscienza vera del cristianesimo facendosi egli stesso modello da imitare.
«Il vescovo che visita la sua Diocesi – scrive in una lettera del marzo 1891 – altro non rappresenta che la persona di Gesù Cristo, e viene perciò in mezzo a voi come amico in mezzo agli amici, …come fratello in mezzo ai fratelli…, come padre in mezzo ai figli» (Lettera alla Diocesi di Guastalla sulla S. Visita Pastorale, 19 marzo 1891).
L’amore per il suo popolo lo rese capace di portare ogni peso, di essere fermo di fronte agli attacchi dei suoi detrattori. Certamente i più dolorosi furono quelli che gli vennero dall’interno stesso della Chiesa. Nonostante la sua rocciosa fedeltà al Papa fu, infatti, pubblicamente accusato di modernismo dalle frange più intransigenti che riuscirono a coinvolgere anche i suoi seminaristi e i suoi preti. Egli non disperò mai e in questa occasione, come anche nello smarrimento provocato dalla prima guerra mondiale e negli anni duri della malattia, mai perse quella letizia, quella prontezza d’animo che sempre lo contraddistinse.
Quello che abbiamo questa sera ascoltato da san Paolo, descrive bene la figura del nostro beato vescovo: egli non cercò mai di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti ebbe a pronunziare parole di adulazione… E neppure ha cercato la gloria umana. È invece stato amorevole in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionato a voi, avrebbe desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la sua stessa vita, perché gli eravate diventati cari (cfr. 1 Tes 2,4-8).
Pregate, cari fratelli e sorelle, perché – per l’intercessione del beato Andrea Carlo Ferrari – possa anche io compiere l’opera che Dio mi ha affidato e amarvi come lui vi ha amati prima di me.
Amen.