[La prima parte è stata pubblicata domenica 3 febbraio]
Concepimento, creazione in atto
Anche ogni singolo essere umano ha avuto un inizio. Un certo numero di anni fa né chi scrive né chi legge esisteva. Improvvisamente siamo comparsi dal nulla. Per ciascuno di noi la creazione è avvenuta allora. E se è vero che l’uomo è l’esito finale dell’Universo, allora ciascun nostro inizio non è soltanto creazione in atto (passaggio dal nulla all’esistenza non tredici miliardi e 800 milioni di anni fa, ma oggi): è anche la creazione più vera. Il vero big bang è il concepimento. Da allora il nostro corpo ha cominciato ad espandersi con una velocità e una organizzazione più impressionante di quanto è avvenuto nell’universo. Basti pensare che dalla prima cellula iniziale derivano i centomila miliardi di cellule che compongono il corpo adulto di un uomo e di una donna. Anche dal punto di vista numerico l’uomo vince sulle stelle: una galassia può avere centinaia o migliaia di miliardi di stelle. Molte, ma comunque è un numero inferiore a quello delle cellule che compongono un corpo umano. Colpisce poi il finalismo che determina la collaborazione di ogni cellula con tutto il resto del corpo, nonché la velocità della costruzione specialmente nella fase che precede il parto.
Il paragone che abbiamo proposto tra l’universo e l’uomo porta ad alcuni corollari. Vi è una certa analogia tra l’inizio del cosmo, così come viene oggi ipotizzato dalla maggioranza degli scienziati, e l’inizio di ogni singola vita umana.
Un punto
Un punto che improvvisamente compare dal nulla. Un punto che contiene una enorme forza espansiva e organizzativa. Un punto in rapida coordinata espansione. Un punto destinato a divenire qualcosa di incommensurabile: nell’ordine della materia inanimata per quanto riguarda l’universo, nell’ordine del pensiero per quanto riguarda l’uomo, capace di abbracciare con la mente l’intero universo. Se qualcuno avesse distrutto il punto da cui ebbe inizio il cosmo, non ci sarebbe l’universo. Avrebbe distrutto il Creato.
Se qualcuno elimina l’embrione umano anche quando ha le dimensioni di un punto non solo distrugge un uomo, ma commette qualcosa di irreparabile, perché quel determinato essere umano non è sostituibile. Quale che egli sarebbe stato, intelligente o di modesta levatura intellettuale, qualcosa è stata sottratta alla storia del mondo, la quale, sia pure per una parte dell’ordito, non potrà più essere riparata. Il danno può essere giudicato per lo più modesto, ma chi può dire chi sarebbe stato quel figlio-embrione divenuto adulto? Dante, Beetoven, Leonardo da Vinci sono stati embrioni. Senza di loro tutti noi saremmo diversi. Chi può dire quanti tra i milioni e milioni di embrioni distrutti con l’aborto o con le varie forme di premeditata eliminazione di figli generati in provetta avrebbero potuto dare un contributo potente al progresso della civiltà, della medicina, della solidarietà, della scienza?
La dignità di ogni vivente umano
Davvero ripetere lo slogan che l’embrione umano non è uomo a ragione della sua piccolezza significa offendere la ragione, oppure riferirsi a una visione brutalmente materialista che considera esistente solo la materia e ritiene l’uomo non altro che materia organizzata in modo particolarmente perfetto, ma pur sempre materia, che, dunque, può essere utilizzata e distrutta nei limiti in cui ciò è conveniente e privo di rischi per chi agisce. Il novecento, secolo di enorme progresso tecnico e civile in tutti i campi, ha visto la passeggera vittoria di dottrine che alla domanda di senso riguardo alla vita del singolo individuo umano non hanno saputo rispondere perché il loro orizzonte era soltanto la materia. Il comunismo reale, ad esempio, non solo ha eretto musei dell’ateismo, ma ha anche insegnato nelle scuole il materialismo teorico. Per evitare l’insuperabile angoscia di Leopardi (il non senso dell’esistere) o il cupo chiudersi di ciascuno nell’isolamento del proprio io pronto a divenire lupo per gli altri, e tuttavia per restare nell’orizzonte della materia, quelle dottrine hanno proposto ai popoli l’idea di un soggetto collettivo – volta a volta la classe, la razza,la Nazione, la specie – come il vero soggetto portatore del valore per promuovere il quale la vita del singolo non varrebbe niente. L’esito drammaticamente nefasto di quelle dottrine è sotto gli occhi di tutti. Proprio nel tentativo di chiudere la stagione dei lager e dei gulag, delle discriminazioni e delle violenze, i popoli del mondo hanno scrittola Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10/12/1948). Proprio nel momento in cui la memoria della tragedia era ancora dolore quotidiano e un possibile nuovo conflitto atomico era all’orizzonte, gli Stati – pur mentre andavano accumulando testate atomiche e missili, impauriti l’uno dall’altro – affidavano tutta la loro speranza civile – di libertà, di giustizia e di pace – a un atto della mente umana: il riconoscimento della “uguale dignità inerente ad ogni essere umano”. Néla Dichiarazione del 1948, né gli innumerevoli Atti e Trattati internazionali successivi relativi ai diritti umani, né le Costituzioni dei singoli Stati che hanno legato la loro stessa identità statuale alla promozione dell’eguale dignità umana, spiegano da dove venga una tale dignità. Si direbbe che essa sia estratta dalle macerie delle città, dal sangue delle vittime e dagli orrori della guerra. Quasi con un procedimento di induzione dai fatti essa è dimostrata dal suo contrario. Ogni sofferenza, ogni oppressione è stata accompagnata dal disprezzo della uguale dignità umana. Dunque – questa la conclusione – se vogliamo guadagnare spazi di libertà, giustizia e pace, dobbiamo riconoscere la pari dignità di ogni vivente umano. “Res sacra homo” non è soltanto affermazione religiosa. E’ anche la più gridata invocazione “laica” nel senso di una razionalità che osservando le vicende del tempo passato interpreta la storia e si esprime nei consessi delle massime organizzazioni civili non (o non solo) nelle chiese.
A proposito della dottrina dei diritti umani si è parlato di “religione civile” fondata sul “principio di venerazione” per ogni singolo essere umano. Non a caso sia l’atto costitutivo dell’Onu, sia la Dichiarazioneuniversale non esitano a proclamare la “fede nei diritti dell’uomo”. E’ evidente che queste considerazioni lambiscono e preparano la dimensione religiosa nella prova dell’esistenza dell’uomo. Ma deliberatamente non voglio ora inoltrarmi in questo spazio dove la dignità umana non è soltanto indotta dalla storia, ma dedotta con rigorosa logica dalla contemplazione del mistero di un Dio creatore che si fa uomo. Basta semplicemente costatare che nonostantei molti tradimenti pratici, la cultura moderna riconosce che la dignità umana va messa al centro di tutte le strutture portanti del nostro vivere civile: libertà (facoltà di fare ciò che ciascuno desidera per sé stesso anche a costo di calpestare l’altro o facoltà di amare l’altro?), democrazia (forza del numero o espressione organizzativa del principio di uguale dignità di tutti gli uomini?), diritto (comando del più forte o guida all’azione giusta?), laicità (affermazione del dubbio sistematico e invincibile o possibilità di lavoro comune, indipendentemente dalla visione religiosa, per costruire un mondo più conforme alla dignità umana, valore comune fondativo del pluralismo?). In tale contesto la questione della vita umana incipiente appare tutt’altro che una banale fissazione “cattolica”. Di più: proprio la domanda “uomo o cosa?” è un varco per un dialogo costruttivo tra credenti e non credenti, non un muro della incomunicabilità. Così l’indagine sul senso della vita umana illumina anche gli albori della vita stessa. L’uomo di Fed
e religiosa sa che il senso della vita umana, anche quando essa appare assolutamente primitiva ed umile, è sempre quello di essere una parola d’amore di Dio. Il non credente scommette egualmente sul senso positivo di ogni vita. Questa è l’inevitabile conseguenza della cultura dei diritti umani. Ciò significa intuire una trascendenza dell’uomo rispetto al resto della natura; considerare l’uomo sempre un fine e mai un mezzo; respingere l’ipotesi di una entità intermedia tra l’uomo e le cose, tra i soggetti e gli oggetti; riconoscere l’uomo anche nelle forme più emblematicamente ultime del vivere umano, quali sono quelle attraversate nell’inizio, nella fine e nella marginalità della sua vita.
Riconoscendo “uno di noi” in ogni figlio, concepito che sia naturalmente o in provetta, si accumulano risorse intellettuali e morali per rinnovare l’intera società in una logica di solidarietà, di eguaglianza e di giustizia sociale.
Insomma, l’accettazione della grandezza misteriosa di ogni uomo non può non riverberarsi sul riconoscimento della sua grandezza anche nel momento della sua origine. E lo stupore di chi riconosce l’uomo nell’apparentemente più insignificante degli uomini non può che aiutare a interpretare con occhi nuovi l’intera società e a operare con maggior lena per rendere il futuro più adeguato alla dignità umana di tutti e di ciascuno.
*Per ogni approfondimento si consiglia la lettura de Le cinque prove dell’esistenza dell’uomo (Edizioni San Paolo, 5 Euro)