Chi evangelizza non è mai solo

Estratto dalla seconda “Lettera” del patriarca Francesco Moraglia per l’Anno della Fede

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“La fede cristiana in un contesto di secolarizzazione diffusa”: s’intitola così la seconda lettera – pubblicata dalle Edizioni Cid di Venezia e di cui anticipiamo qui un estratto – che il Patriarca mons. Francesco Moraglia ha voluto rivolgere alla Diocesi per accompagnare un nuovo tratto dell’Anno della Fede.

Il testo verrà presentato nel corso di tre incontri in programma in questi giorni, nelle varie zone del Patriarcato, secondo questo calendario:  martedì 5 febbraio a Venezia, alle ore 18.00, nella Basilica cattedrale di S. Marco; mercoledì 6 febbraio a Jesolo Lido, alle ore 20.30, presso l’Auditorium Vivaldi; venerdì 8 febbraio a Mestre, alle ore 20.30, nel Duomo di San Lorenzo.

E’ questa la seconda tappa del cammino diocesano iniziato domenica 14 ottobre 2012 con la messa solenne che ha dato avvio in Piazza San Marco all’Anno della Fede. Se in quell’occasione mons. Moraglia aveva affidato alla lettura delle comunità il testo “So in chi ho posto la mia fede”, oggi al centro della meditazione del Patriarca è il rapporto tra fede e ragione nell’attuale contesto. Nel prossimo mese di maggio è fissata, infine, la terza tappa di questo percorso con uno specifico approfondimento previsto stavolta su fede e dottrina sociale della Chiesa.

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Chi evangelizza non è mai solo

Annunciare la fede senza timori in contesti secolarizzati e difficili, in posizione di minoranza. Come san Paolo a Corinto

La città è lo spazio individuale e sociale in cui l’uomo organizza la sua umanità e dispiega le relazioni fondamentali della sua persona. Ma in che modo questo avviene? Nel Nuovo Testamento la città diventa luogo emblematico dell’annuncio evangelico e in cui deve risuonare la fede come risposta dell’uomo a Dio che, in Gesù Cristo, chiama a salvezza attraverso il dono dello Spirito Santo, vero protagonista della missione evangelizzatrice della Chiesa. È significativo poi che la narrazione del Nuovo Testamento – nel libro dell’Apocalisse – termini con la visione della Gerusalemme celeste, la città che scende dal cielo, da Dio, come sposa preparata per lo Sposo; è la visione dell’umanità finalmente evangelizzata, pronta per l’incontro definitivo con Dio. Muoviamo dai fatti e partiamo da uno di essi: Paolo evangelizzatore a Corinto. Ecco la testimonianza che ne dà il libro degli Atti (18, 9-11): “Una notte, in visione, il Signore disse a Paolo: «Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso». Così Paolo si fermò un anno e mezzo, e insegnava fra loro la parola di Dio”.

Il contesto in cui si muove Paolo potrebbe sembrare profondamente diverso da quello di oggi: Corinto è città greca del primo secolo successivo a Cristo e non una metropoli del XXI secolo come Parigi, New York o Rio de Janeiro. Paolo è un ebreo di duemila anni fa, convertitosi a Gesù Cristo, e non è certo l’uomo post-moderno dell’inizio del terzo millennio. Eppure i sentimenti che l’apostolo avverte – sgomento, solitudine e paura – sono i nostri: questi stati d’animo ci appartengono ogni qual volta siamo impegnati in un’impresa ardua, in un contesto difficile in cui percepiamo di essere piccoli ed appartenere a una fragile minoranza. Paolo prova, entrando in Corinto, una sensazione di vera oppressione; si sente schiacciato da una realtà più grande di lui. Allora il Signore gli si manifesta come presenza che lo sostiene e rassicura. Paolo, ossia colui che evangelizza, non è mai solo; viene infatti rassicurato che tra quelle case, quelle strade, quelle piazze, sperimenterà – come neppure immagina – la presenza fedele e l’aiuto premuroso del suo Signore.

La città di Corinto, dove Paolo si muove con trepidazione e timore, rappresenta la realtà paradigmatica che si pone dinanzi all’evangelizzatore di ogni tempo. Per talune caratteristiche socio-culturali e per il numero dei suoi abitanti potrebbe essere una città della nostra epoca e del nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, era ricco e fortemente secolarizzato ed oggi – dopo la crisi finanziaria – appare molto meno ricco anche se sempre più secolarizzato. Corinto era una città crocevia di culture disparate, di molteplici commerci, di forti interessi economici e grandi flussi di denaro; era anche noto luogo di lussuria. Di fronte a tale realtà non è difficile immaginare quali fossero le linee culturali e i criteri a cui i Corinti si riferivano e, di conseguenza, le logiche da cui erano mossi… Corinto poteva essere considerata sia città greca che città romana ma, agli occhi di Paolo, era soprattutto una città pagana. Profondamente pagana.

Anche oggi, di fronte a realtà che ostacolano la nostra volontà di annunciare il Regno di Dio – ossia Gesù -, non dobbiamo lasciarci intimorire. Anche noi siamo chiamati, come l’apostolo Paolo, a riscoprire la presenza di Gesù per dare energie nuove alla nostra azione evangelizzatrice e lasciando che sia Lui a portarci. I due pellegrini di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35) esprimono il comune sentire del discepolo di ogni epoca quando si è dinanzi all’insuccesso e alla delusione. Il Signore è vivo, anzi è il Vivente. E per questo è realmente vicino a noi, è presente nella nostra vita e, Risorto, sempre precede i suoi. Può capitare che Lui parli con noi e noi non capiamo che è Lui e, così, continuiamo a non riconoscerlo poiché, troppo presi e rinchiusi in noi stessi, rimaniamo prigionieri dell’uomo vecchio che è in noi, prigionieri delle nostre paure. C’è, allora, un cammino di conversione che si apre di fronte ai discepoli di ogni tempo: un percorso che, in questo Anno della Fede, dovrebbe accompagnarci in modo particolare.

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ZENIT Staff

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