Il recente processo e la condanna di Saeed Abedini in Iran ha destato ancora una volta l’attenzione dell’opinione pubblica sulla mancanza di libertà religiosa nei paesi a maggioranza musulmana.
Abedini, nato in Iran ma naturalizzato statunitense, al momento dell’arresto stava visitando il suo paese natale. L’uomo, un tempo musulmano, si è poi convertito al cristianesimo. Negli anni passati ha istituito alcune chiese in Iran ma dopo il suo arresto è tornato a lavorare in un orfanotrofio.
Lo scorso 27 gennaio Abedini è stato condannato a 8 anni di reclusione da un giudice della Corte Rivoluzionaria che ha affermato che il suo impegno ad istituire chiese minaccerebbe la sicurezza nazionale in Iran (cfr. World Watch Monitor, 29 gennaio).
“Nutriamo seri dubbi sulla chiarezza e sulla trasparenza del processo al signor Abedini”, ha affermato il neosegretario di Stato americano, John Kerry, interpellato sull’argomento durante la sua udienza in Senato (cfr. Christian Post, 30 gennaio).
“Assieme al governo americano, io condanno la continua violazione del diritto universale alla libertà religiosa da parte dell’Iran e richiamo le autorità di Teheran a rispettare i diritti umani del signor Abedini e a liberarlo”, ha aggiunto Kerry.
Lo scorso 21 novembre il Pew Forum on Religion and Public Life ha pubblicato un dossier in merito alle leggi contro la blasfemia, l’apostasia e la diffamazione della religione.
Il documento riferisce di alcuni recenti casi, tra cui quello di una quattordicenne pakistana arrestata con l’accusa di aver strappato delle pagine del Corano.
Se da un lato molte violazioni coinvolgono paesi islamici, i musulmani non sono i soli a limitare la libertà religiosa. Un esempio è quello dell’accusa di blasfemia in Grecia a carico di un uomo per alcune allusioni satiriche alla Chiesa Ortodossa, pubblicate on line.
Sanzioni
Secondo lo studio di Pew nel 2011 quasi la metà (47%) dei paesi e del territori del mondo prevedono leggi e politiche che sanzionano la blasfemia, l’apostasia o la diffamazione della religione.
Dei 198 paesi presi in esame, 32 (16%) prevedono leggi anti-blasfemia, 20 (10%) hanno leggi che penalizzano l’apostasia e 87 (44%) prevedono leggi contro la diffamazione della religione, tra cui è inclusa l’istigazione all’odio contro i membri di altre religioni.
Un precedente studio del Pew Forum sullo stesso argomento ha riscontrato che le restrizioni alla libertà religiosa sono spesso vigenti in vari paesi con severe restrizioni governative alla religione o ad alti livelli di ostilità sociale includenti la religione.
Leggi anti-blasfemia sono particolarmente diffuse in Medio Oriente e in Nord Africa, mentre sono completamente assenti in Europa e nelle Americhe.
In compenso le leggi contro la diffamazione della religione, sono più frequenti in Europa, dove sono previste in 36 paesi su 45. Lo studio osserva, tuttavia, che molte di queste leggi sono correlate a sanzioni contro l’incitamento all’odio, più che alla diffamazione in sé.
Le più recenti notizie e scoperte dello studio del Pew Forum confermano le preoccupazioni espresse in un libro, pubblicato alla fine del 2011, da Paul Marshall e Nina Shea. In Silenced: How Apostasy and Blasphemy Codes are Choking Freedom Worldwide (Silenziati: come le leggi contro l’apostasia e la blasfemia stanno soffocando la libertà nel mondo), edito da Oxford Press, gli autori esaminano sia i paesi a maggioranza musulmana che le nazioni occidentali, come dei tentativi di introdurre delle restrizioni alla blasfemia per mezzo delle Nazioni Unite.
Estremisti
Riguardo ai paesi musulmani, Marshall e Shea osservano che le restrizioni sono usate per mettere a freno la libertà di intellettuali, scrittori, dissidenti ed attivisti per i diritti umani. Le libertà politiche ed accademiche sono frequentemente limitate.
Gli autori, inoltre, affermano che le restrizioni incoraggiano una chiusa ortodossia religiosa e favoriscono la posizione degli estremisti che usano queste leggi per intimidire coloro i quali cercano la riconciliazione tra i paesi islamici e il resto del mondo.
Spesso le leggi sono molto generiche e le corti non sono tenute a seguire precise definizioni. Ad esempio in Malaysia è illegale pubblicare “fatti controversi che possano indebolire la fede dei musulmani”.
In Pakistan le leggi anti-blasfemia proibiscono ogni atto che sia un offesa “attraverso imputazione, insinuazione o allusione, direttamente o indirettamente”.
Oltre alle restrizioni legali, uno dei capitoli del libro prende in esame gli atti di violenza portati avanti dagli estremisti. “Se da un lato le strutture legali sui discorsi religiosi sono pericolosi, un problema più pervasivo e, per molti versi, più profondo, è costituito dalla violenza e dalle minacce contro chi viene accusato di insultare l’Islam”, osservano gli autori.
La minaccia di tale violenza può sfociare nell’autocensura. Un caso del genere è capitato nel 2009, quando la Yale University Press si rifiutò di pubblicare un immagine delle vignette danesi che infiammò una controversia mondiale, sebbene il libro fosse stato promosso come il più approfondito studio sulle medesime vignette.
La posta in gioco è l’indebolimento delle fondamentali libertà di religione ed espressione, conclude il libro, che lancia anche un appello ai politici per una migliore comprensione del ruolo della religione in politica e a chiunque a difendere con più vigore la libertà religiosa. Un richiamo oggi più che mai attuale.