di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 27 luglio 2012 (ZENIT.org) – Quando è incominciata questa crisi, dove, che cosa l’ha scatenata, come si è sviluppata? E perché sembra non finire mai? Di chi sono le responsabilità? Perché siamo diventati vittime degli spread? Perché il lavoro non riesce più a essere un diritto? Perché un tempo si andava in pensione da giovani e oggi i giovani sanno che non andranno mai in pensione? Perché la Germania non vuole gli eurobond e la Gran Bretagna si oppone alla Tobin Tax? Perché si parla di guerra? Chi sta vincendo e chi sta perdendo?
Per rispondere a queste ed altre domande, Massimo Calvi, caporedattore al desk centrale del quotidiano “Avvenire” dove è stato per dieci anni responsabile della redazione Economia e Lavoro, ha scritto il libro “Capire la crisi”, edito da Rubbettino.
Il libro prova a fare ordine, ricostruendo le principali tappe della crisi, raccontando con parole semplici che cosa è accaduto e perché, mostrando con chiarezza gli errori commessi e offrendo una lucida chiave di lettura dei problemi che stanno affliggendo l’occidente.
Per le soluzioni Calvi propone nuove regole, ma senza un cambio radicale nel modo di intendere l’economia e il libero mercato, senza la presa d’atto che la crisi è figlia soprattutto di una deriva di carattere morale ad ogni livello economico e sociale, del prevalere dell’avidità sul desiderio di servire il bene comune, sarà impossibile superare queste e le future difficoltà. Come suggerisce Papa Benedetto XVI.
Intervistato da ZENIT, Massimo Calvi ha precisato: “La crisi nasce innanzitutto da una deriva di carattere morale. E’ figlia del tradimento dei principi fondamentali della dottrina sociale cristiana: responsabilità, solidarietà, sussidiarietà, dignità della persona umana. E’ stata alimentata da una profonda crisi di senso. E’ il frutto dell’illusione di poter vivere al di sopra delle proprie possibilità scaricando i costi di questo benessere artificiale su qualcun altro, nel generale distacco dalla realtà e nel disprezzo diffuso del bene comune”.
A cinque anni dallo scoppio della crisi, che convenzionalmente viene fatta detonare il 9 agosto 2007, e sulle difficoltà che si sono abbattute sull’Occidente, piegandolo alla peggiore crisi dal ’29, si è detto e si è scritto molto. Una mole sconfinata di dati, fatti, analisi, considerazioni e ricette proposte che secondo lo specialista di Avvenire col tempo “hanno finito per confondere le idee, creato una cortina fumosa attorno alle questioni fondamentali all’origine della crisi, generando nelle persone disorientamento, sentimenti di paura e angoscia”.
Ed è proprio per cercare di fare chiarezza che Calvi ha sentito l’esigenza di pubblicare questo libro E’ un racconto della crisi, narrata con parole semplici e comprensibili ai più, con il pregio di aiutare il lettore a confrontarsi con la cronologia essenziale dei fatti, e a ricomporli come un grande puzzle, permettendo finalmente di avere una lucida visione di insieme della crisi che stiamo attraversando.
Una lettura agile e piacevole, non rivela inutili retroscena e non fa sfoggio di erudizione con citazioni dotte e suggestive: si limita, in un apprezzabile sforzo di ricerca dell’essenziale, a fornire gli strumenti per capire, orientarsi e ridare un senso a tutto. Con una chiave di lettura morale, naturalmente ispirata dalla Caritas in veritate, ma mai moralista.
Secondo Calvi la crisi non è “colpa” solo di un manipolo di avidi banchieri, manager scorretti o speculatori interessati: la catena delle responsabilità è in realtà molto più lunga e complessa e chiama in causa un’intera cultura economica, un modo distorto ad ogni livello di intendere l’economia, il mercato, la società, la stessa natura della persona umana.
Il caporedattore di Avvenire sottolinea che “non è concentrandoci sulle regole e sugli strumenti che possiamo pensare di uscire dalla crisi, ma è piuttosto rivedendo il modo che abbiamo di intendere il lavoro, il profitto e il nostro modo di operare e di costruire”.
Il libro rileva che bisogna superare la visione di un mercato che serve l’interesse di pochi a scapito dell’interesse comune, negando la dimensione della gratuità e del dono, e quella di uno Stato cui si chiede solo di garantire, proteggere e tutelare rendite.