"Affinché le ragazze non vivano nelle tenebre eterne"

Associazione di donne marocchine si batte per la libertà di scoprire il volto e i capelli

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di Valentina Colombo

ROMA, martedì, 3 luglio 2012 (ZENIT.org).- “Affinché le ragazze non vivano nelle tenebre eterne”. Questo è il motto coraggioso della campagna contro il velo imposto alle bambine lanciata dal Markaz musawa al-mar’a (Centro per l’uguaglianza della donna) con base in Marocco (http://www.c-we.org/frame/camp.asp?id=357). L’iniziativa parte dalla sempre maggiore diffusione del velo tra le minorenni marocchine, e non solo, nella consapevolezza che si tratti di una barbara imposizione.

Il comunicato è un j’accuse molto chiaro: “A tutte le associazioni umane e legali. Vi invitiamo a unirvi a noi nella campagna contro il fenomeno del velo tra le bambine. Siffatto fenomeno riguarda bambine dai tre ai dieci anni la cui vista addolora poiché si convincono di essere oggetti di desiderio che devono celarsi e nascondere i loro capelli.

Tutto questo accade in un’età in cui non conoscono nulla della religione e dei suoi fondamenti. Ci rivolgiamo a tutti coloro che hanno a che fare con questo fenomeno, soprattutto ai religiosi, ai partiti e alle organizzazioni laici, democratici e volti all’emancipazione della donna e alle organizzazioni per i diritti umani. Si tratta di un fenomeno estremamente pericoloso che colpisce l’infanzia e la sua innocenza. Si tratta di una flagrante violazione dell’innocenza delle bambine che non sanno nulla di ciò che è proibito e lecito. Le nostre bambine sono in pericolo e rischiano di essere trascinate nelle tenebre, di essere lese nella loro stabilità psicologica e nella loro autostima.

Tutte le persone senza esclusione alcuna, tutte le persone che possiedono un briciolo di cultura, di libertà, di volontà di favorire il progresso hanno il dovere di sensibilizzare gli altri circa questo fenomeno, le istituzioni devono intraprendere tutte le misure necessarie per arginare il velo delle bambine e vietarlo con leggi severe, gli ambiti religiosi devono spiegare e chiarire la questione perché ci sono bambine che vivono nelle tenebre, i governi devono impegnarsi a proteggere l’infanzia e a costruire una società sana”.

Si tratta di una campagna che assume una maggiore rilevanza nel periodo post-rivoluzionario sulla sponda meridionale del Mediterraneo che ha assistito la presa di potere da parte dell’estremismo islamico dei Fratelli musulmani e il conseguente sdoganamento degli elementi salafiti ultra-conservatori. Entrambi professano l’obbligatorietà del velo per donna musulmana: i primi solo del hijab, ovvero del foulard, i secondi anche nel niqab, il velo integrale.

E’ indispensabile fare conoscere il dibattito interno all’islam circa l’obbligatorietà o meno del copricapo, è indispensabile che si diffonda la convinzione che il velo è solo una libera scelta della donna. Nel 1993 la sociologa algerina, attualmente Ministro della Comunicazione e della Cultura, Khalida Messaoudi scriveva che “esistono tre tipi di hijab: quello che permette di nascondere la propria miseria, perché la vita è molto cara e vestirsi lo è ancora di più; quello che si rivela un lasciapassare perché così travestite le donne possono più liberamente muoversi per le strade; quello delle casalinghe già abituate a portare il haiq, ma che ora portano più volentieri il hijab perché ha il vantaggio di lasciare le mani libere.

Senza contare che in una società in cui i giovani, e in particolare le ragazze, vivono purtroppo una terribile povertà affettiva e sessuale e dove l’assoggettamento femminile viene organizzato molto precocemente e a tutti i livelli, l’hijab diventa uno strumento di identificazione e di affermazione di sé. Per non parlare infine del hijab politico, di quello cioè che viene coscientemente e liberamente indossato per indicare la propria appartenenza ideologica e che assume un significato di segno di identità e riconoscimento”.

Ebbene la studiosa algerina, laica, non parla di hijab religioso, ma non parlano di hijab come obbligo religioso nemmeno alcuni celebri teologi musulmani. Primo fra tutti Gamal al-Banna, fratello minore del fondatore del movimento dei Fratelli musulmani Hasan al-Banna, che nel suo saggio Il velo, pubblicato al Cairo nel 2008, definiva il velo integrale “un crimine che non rispetta né i diritti della società né i diritti della donna” (pag. 26) e per quanto riguarda il hijab a pagina 147 affermava lapidario: “L’atroce verità è che il hijab, anche per coloro che lo considerano un obbligo, è che riguarda le donne che ‘hanno raggiunto la pubertà’ come narra un celebre detto del Profeta. Non riguarda invece le donne che non hanno raggiunto la pubertà, come nel caso di bambine che frequentano la scuola elementare.

Purtroppo questa verità è ignota ai più perché in pratica ciò che impone il velo è la tradizione oppure un pensiero errato non certo un obbligo religioso.” Dello stesso parere è Muhammad Rashed, teologo egiziano e docente presso l’università di Al Azhar. Inoltre come ha ricordato la sociologa marocchina Fatima Mernissi nel suo celebre saggio L’harem politico “il hijab, letteralmente ‘cortina’, è ‘disceso’ non per instaurare una barriera tra un uomo e una donna, bensì tra due uomini” facendo riferimento al versetto 53 della sura coranica XXXIII.

Se il velo non è un obbligo religioso, ma il frutto della scelta di una donna consapevole che sceglie liberamente di indossarlo, per vari motivi, non può certamente essere imposto a nessuno, ma soprattutto non può essere imposto a bambine del tutto innocenti.

La Convenzione per i diritti del bambino delle Nazioni Unite prevede “lo sviluppo armonioso della personalità” e il diritto all’istruzione. Se metà delle donne nel mondo arabo non sanno né leggere né scrivere, è fondamentale sostenere la campagna contro il velo imposto alla bambine che andrebbe accompagnata da una campagna volta ad aumentare il tasso di alfabetizzazione delle stesse. Solo così facendo si potranno creare nuove generazioni lontane da ogni ideologia, sia questa legata alla religione o alla tradizione.

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ZENIT Staff

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