Benedetto XVI: abbandoniamoci totalmente nelle mani di Dio

All’Udienza generale dedicata alla figura del pastore evocata dal salmo 23

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CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 4 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo del discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell’Udienza generale tenutasi in piazza San Pietro.

Riprendendo la catechesi sulla preghiera, il Papa si è soffermato sul Salmo 23.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

rivolgersi al Signore nella preghiera implica un radicale atto di fiducia, nella consapevolezza di affidarsi a Dio che è buono, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34, 6-7; Sal 86, 15; cfr. Gl 2, 13; Gn 4, 2; Sal 103, 8; 145, 8; Ne 9, 17). Per questo oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo tutto pervaso di fiducia, in cui il Salmista esprime la sua serena certezza di essere guidato e protetto, messo al sicuro da ogni pericolo, perché il Signore è il suo pastore. Si tratta del Salmo 23 — secondo la datazione greco latina 22 — un testo familiare a tutti e amato da tutti.

«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla»: così inizia questa bella preghiera, evocando l’ambiente nomade della pastorizia e l’esperienza di conoscenza reciproca che si stabilisce tra il pastore e le pecore che compongono il suo piccolo gregge. L’immagine richiama un’atmosfera di confidenza, intimità, tenerezza: il pastore conosce le sue pecorelle una per una, le chiama per nome ed esse lo seguono perché lo riconoscono e si fidano di lui (cfr. Gv 10, 2-4). Egli si prende cura di loro, le custodisce come beni preziosi, pronto a difenderle, a garantirne il benessere, a farle vivere in tranquillità. Nulla può mancare se il pastore è con loro. A questa esperienza fa riferimento il Salmista, chiamando Dio suo pastore, e lasciandosi guidare da Lui verso pascoli sicuri:

«Su pascoli erbosi mi fa riposare,

ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,

mi guida per il giusto cammino

a motivo del suo nome» (vv. 2-3).

La visione che si apre ai nostri occhi è quella di prati verdi e fonti di acqua limpida, oasi di pace verso cui il pastore accompagna il gregge, simboli dei luoghi di vita verso cui il Signore conduce il Salmista, il quale si sente come le pecore sdraiate sull’erba accanto ad una sorgente, in situazione di riposo, non in tensione o in stato di allarme, ma fiduciose e tranquille, perché il posto è sicuro, l’acqua è fresca, e il pastore veglia su di loro. E non dimentichiamo qui che la scena evocata dal Salmo è ambientata in una terra in larga parte desertica, battuta dal sole cocente, dove il pastore seminomade mediorientale vive con il suo gregge nelle steppe riarse che si estendono intorno ai villaggi. Ma il pastore sa dove trovare erba e acqua fresca, essenziali per la vita, sa portare all’oasi in cui l’anima «si rinfranca» ed è possibile riprendere le forze e nuove energie per rimettersi in cammino.

Come dice il Salmista, Dio lo guida verso «pascoli erbosi» e «acque tranquille», dove tutto è sovrabbondante, tutto è donato copiosamente. Se il Signore è il pastore, anche nel deserto, luogo di assenza e di morte, non viene meno la certezza di una radicale presenza di vita, tanto da poter dire: «non manco di nulla». Il pastore, infatti, ha a cuore il bene del suo gregge, adegua i propri ritmi e le proprie esigenze a quelli delle sue pecore, cammina e vive con loro, guidandole per sentieri «giusti», cioè adatti a loro, con attenzione alle loro necessità e non alle proprie. La sicurezza del suo gregge è la sua priorità e a questa obbedisce nel guidarlo.

Cari fratelli e sorelle, anche noi, come il Salmista, se camminiamo dietro al «Pastore buono», per quanto difficili, tortuosi o lunghi possano apparire i percorsi della nostra vita, spesso anche in zone desertiche spiritualmente, senza acqua e con un sole di razionalismo cocente, sotto la guida del pastore buono, Cristo, siamo certi di andare sulle strade «giuste» e che il Signore ci guida e ci è sempre vicino e non ci mancherà nulla.

Per questo il Salmista può dichiarare una tranquillità e una sicurezza senza incertezze né timori:

«Anche se vado per una valle oscura,

non temo alcun male, perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza» (v. 4).

Chi va col Signore anche nelle valli oscure della sofferenza, dell’incertezza e di tutti i problemi umani, si sente sicuro. Tu sei con me: questa è la nostra certezza, quella che ci sostiene. Il buio della notte fa paura, con le sue ombre mutevoli, la difficoltà a distinguere i pericoli, il suo silenzio riempito di rumori indecifrabili. Se il gregge si muove dopo il calar del sole, quando la visibilità si fa incerta, è normale che le pecore siano inquiete, c’è il rischio di inciampare oppure di allontanarsi e di perdersi, e c’è ancora il timore di possibili aggressori che si nascondano nell’oscurità. Per parlare della valle «oscura», il Salmista usa un’espressione ebraica che evoca le tenebre della morte, per cui la valle da attraversare è un luogo di angoscia, di minacce terribili, di pericolo di morte. Eppure, l’orante procede sicuro, senza paura, perché sa che il Signore è con lui. Quel «tu sei con me» è una proclamazione di fiducia incrollabile, e sintetizza l’esperienza di fede radicale; la vicinanza di Dio trasforma la realtà, la valle oscura perde ogni pericolosità, si svuota di ogni minaccia. Il gregge ora può camminare tranquillo, accompagnato dal rumore familiare del bastone che batte sul terreno e segnala la presenza rassicurante del pastore.

Questa immagine confortante chiude la prima parte del Salmo, e lascia il posto ad una scena diversa. Siamo ancora nel deserto, dove il pastore vive con il suo gregge, ma adesso siamo trasportati sotto la sua tenda, che si apre per dare ospitalità:

«Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici.

Ungi di olio il mio capo;

il mio calice trabocca» (v. 5).

Ora il Signore è presentato come Colui che accoglie l’orante, con i segni di una ospitalità generosa e piena di attenzioni. L’ospite divino prepara il cibo sulla «mensa», un termine che in ebraico indica, nel suo senso primitivo, la pelle di animale che veniva stesa per terra e su cui si mettevano le vivande per il pasto in comune. È un gesto di condivisione non solo del cibo, ma anche della vita, in un’offerta di comunione e di amicizia che crea legami ed esprime solidarietà. E poi c’è il dono munifico dell’olio profumato sul capo, che dà sollievo dall’arsura del sole del deserto, rinfresca e lenisce la pelle e allieta lo spirito con la sua fragranza. Infine, il calice ricolmo aggiunge una nota di festa, con il suo vino squisito, condiviso con generosità sovrabbondante. Cibo, olio, vino: sono i doni che fanno vivere e danno gioia perché vanno al di là di ciò che è strettamente necessario ed esprimono la gratuità e l’abbondanza dell’amore. Proclama il Salmo 104, celebrando la bontà provvidente del Signore: «Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore» (vv. 14-15). Il Salmista è fatto oggetto di tante attenzioni, per cui si vede come un viandante che trova riparo in una tenda ospitale, mentre i suoi nemici devono fermarsi a guardare, senza poter intervenire, perché colui che consideravano loro preda è stato messo al sicuro, è diventato ospite sacro, intoccabile. E il Salmista siamo noi se siamo realmente credenti in comunione con Cristo. Quando Dio apre la sua tenda per accoglierci, nulla può farci del male.

Quando poi il viandante riparte, la protezione divina si prolunga e lo accompagna nel suo viaggio:

«Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

abiterò ancora nella casa del Signore

per lunghi gior
ni» (v. 6).

La bontà e la fedeltà di Dio sono la scorta che accompagna il Salmista che esce dalla tenda e si rimette in cammino. Ma è un cammino che acquista un nuovo senso, e diventa pellegrinaggio verso il Tempio del Signore, il luogo santo in cui l’orante vuole «abitare» per sempre e a cui anche vuole «ritornare». Il verbo ebraico qui utilizzato ha il senso di «tornare», ma, con una piccola modifica vocalica, può essere inteso come «abitare», e così è reso dalle antiche versioni e dalla maggior parte delle traduzioni moderne. Ambedue i sensi possono essere mantenuti: tornare al Tempio e abitarvi è il desiderio di ogni Israelita, e abitare vicino a Dio nella sua vicinanza e bontà è l’anelito e la nostalgia di ogni credente: poter abitare realmente dove è Dio, vicino a Dio. La sequela del Pastore porta alla sua casa, è quella la meta di ogni cammino, oasi desiderata nel deserto, tenda di rifugio nella fuga dai nemici, luogo di pace dove sperimentare la bontà e l’amore fedele di Dio, giorno dopo giorno, nella gioia serena di un tempo senza fine.

Le immagini di questo Salmo, con la loro ricchezza e profondità, hanno accompagnato tutta la storia e l’esperienza religiosa del popolo di Israele e accompagnano i cristiani. La figura del pastore, in particolare, evoca il tempo originario dell’Esodo, il lungo cammino nel deserto, come un gregge sotto la guida del Pastore divino (cfr. Is 63, 11-14; Sal 77, 20-21; 78, 52-54). E nella Terra Promessa era il re ad avere il compito di pascere il gregge del Signore, come Davide, pastore scelto da Dio e figura del Messia (cfr. 2 Sam 5, 1-2; 7, 8; Sal 78, 70-72). Poi, dopo l’esilio di Babilonia, quasi in un nuovo Esodo (cfr. Is 40, 3-5.9-11; 43, 16-21), Israele è riportato in patria come pecora dispersa e ritrovata, ricondotta da Dio a rigogliosi pascoli e luoghi di riposo (cfr. Ez 34, 11-16.23-31). Ma è nel Signore Gesù che tutta la forza evocativa del nostro Salmo giunge a completezza, trova la sua pienezza di significato: Gesù è il «Buon Pastore» che va in cerca della pecora smarrita, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (cfr. Mt 18, 12-14; Lc 15, 4-7; Gv 10, 2-4.11-18), Egli è la via, il giusto cammino che ci porta alla vita (cfr. Gv 14, 6), la luce che illumina la valle oscura e vince ogni nostra paura (cfr. Gv 1, 9; 8, 12; 9, 5; 12, 46). È Lui l’ospite generoso che ci accoglie e ci mette in salvo dai nemici preparandoci la mensa del suo corpo e del suo sangue (cfr. Mt 26, 26-29; Mc 14, 22-25; Lc 22, 19-20) e quella definitiva del banchetto messianico nel Cielo (cfr. Lc 14, 15ss; Ap 3, 20; 19, 9). È Lui il Pastore regale, re nella mitezza e nel perdono, intronizzato sul legno glorioso della croce (cfr. Gv 3, 13-15; 12, 32; 17, 4-5).

Cari fratelli e sorelle, il Salmo 23 ci invita a rinnovare la nostra fiducia in Dio, abbandonandoci totalmente nelle sue mani. Chiediamo dunque con fede che il Signore ci conceda, anche nelle strade difficili del nostro tempo, di camminare sempre sui suoi sentieri come gregge docile e obbediente, ci accolga nella sua casa, alla sua mensa, e ci conduca ad «acque tranquille», perché, nell’accoglienza del dono del suo Spirito, possiamo abbeverarci alle sue sorgenti, fonti di quell’acqua viva «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14; cfr. 7, 37-39). Grazie.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo adesso il mio affettuoso saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai partecipanti al pellegrinaggio delle Diocesi della Sicilia, presieduto dal Cardinale Paolo Romeo, Arcivescovo di Palermo, ed accompagnato da tutti i Vescovi Siciliani in occasione dell’anniversario della mia Visita pastorale del 3 ottobre 2010. Carissimi, la sosta presso le Tombe degli Apostoli rafforzi in tutti voi i propositi di fedele adesione a Cristo e di generosa testimonianza evangelica.

Saluto i fedeli della Diocesi di Adria-Rovigo, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Lucio Soravito de Franceschi, qui convenuti al termine del Sinodo diocesano. Carissimi, vi assicuro la mia preghiera perché possiate realizzare con generoso impegno le disposizioni sinodali, per una rinnovata vitalità spirituale, ed essere fermento nella società civile.

Saluto anche i pellegrini della Diocesi di Lucera-Troia, con il Vescovo Mons. Domenico Cornacchia, che, unitamente ai Frati Minori Conventuali di Puglia, concludono l’anno giubilare per il venticinquesimo anniversario della canonizzazione di San Francesco Antonio Fasani. Cari Pastori e fedeli, l’esempio del vostro “Padre Maestro” susciti in tutti il desiderio di corrispondere alla chiamata universale alla santità.

Sono particolarmente lieto di accogliere le Suore di carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea, che domenica scorsa hanno avuto la gioia di vedere innalzata agli onori degli Altari la loro Fondatrice Madre Antonia Maria Verna. Auspico che il luminoso esempio della nuova Beata rafforzi lo slancio di una vita totalmente donata e, per quanti ne condividono il carisma, rinnovata fedeltà agli impegni di vita cristiana.

Saluto pure i Formatori e gli alunni del Pontificio Collegio Internazionale Mater Ecclesiae, e la Fondazione Opera Edimar di Padova.

Infine, mi rivolgo ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. San Francesco d’Assisi, di cui abbiamo celebrato ieri la festa liturgica, aiuti ciascuno divoi a vivere il Vangelo in carità e letizia. A tutti la mia Benedizione.

[© Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana]

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ZENIT Staff

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