MACAO, mercoledì, 5 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Oggi, nella Università in cui insegno, si è tenuto un concerto-conferenza da parte di un pianista Jazz proveniente dal Portogallo. Vi ho assistito con molto interesse e quasi naturalmente la mia mente ha cominciato a pensare all’arte dell’improvvisazione, questa sorta di creazione istantanea che tanto è connaturale alla musica quanto è, di fatto, quasi scansata con sospetto nella pratica musicale corrente, dove tutto deve essere fedele allo scritto, filologico. Quando penso a questo tema, non posso fare a meno di pensare all’arte dell’improvvisazione organistica nella liturgia, da sempre bagaglio indispensabile per ogni buon organista liturgico ma oggi lasciata un po' da parte, come già detto sopra per la musica in generale, quasi dimenticata. In una liturgia in cui l’improvvisare qualsiasi cosa è divenuto quasi un punto d’onore, l’unica improvvisazione che ci sta veramente bene, quella all’organo, è lasciata alla buona volontà di coloro che ancora vogliono cimentarsi in questa arte. Eppure l’arte dell’improvvisazione, liturgica e non, è come detto connaturata alla musica stessa. Specialmente quando la trasmissione era soprattutto orale, era pratica normale quella di variare su melodie o ritmi. Faceva parte della natura della performance. E in moltissime culture, come quella indiana ma anche molte altre, l’improvvisazione è ancora alla base del fare musica, per non parlare del Jazz.

Cosa è l’improvvisazione? Alcuni direbbero è una creazione estemporanea, ma io credo che questa definizione non sia molto precisa. Infatti, ogni persona di buon senso sa che chi improvvisa non crea dal nulla sul momento, piuttosto seleziona dal suo archivio mentale alcune memorie musicali e le combina in modo nuovo ed efficace, estemporaneamente. È come parlare, ma al posto delle parole l’improvvisatore ha a disposizione delle frasi musicali o armonie o ritmi. Quindi l’improvvisazione è praticamente la risposta musicale ad uno stimolo. Così come le parole sono la risposta ad una certa sollecitazione (desiderio di comunicare, domande, dare istruzioni...) così l’improvvisazione musicale nasce dall’esigenza di rispondere ad uno stimolo (emozione, voglia di liberare energia, meditazione…). Caratteristica dell’improvvisazione è che la risposta è immediata, non consegnata allo scritto, come dunque nel discorso parlato. Immediata ma anche mediata e la mediazione è tutto quel bagaglio mentale di musiche ascoltate e studiate, di sollecitazioni extra musicali, di emozioni profonde, a cui l’improvvisatore può e deve liberamente attingere. Quindi non è compito semplice, più che ciò che si deve scegliere si deve forse fare attenzione a cosa si deve tralasciare. L’improvvisazione vive nel presente, e vive solo nel momento o per il momento. Non ha né futuro né passato, vive solo nell’attimo in cui si compie.

Ma perché è importante tenerla viva nella liturgia? Innanzitutto, bisognerebbe dire che l’improvvisazione, in un certo senso, precede la composizione musicale stessa, ogni composizione. Infatti, che cosa è una composizione scritta se non la fissazione di un’improvvisazione, la codificazione di un tentativo, l’esplicitazione di una possibilità? Il compositore, attraverso la ricerca, anche solo mentale, fissa sul foglio una possibilità tra le molte che il suo vagare creativo gli pone davanti. Quindi ogni composizione è una possibilità tra le molte; chi sa del lavorio del compositore, anche conosce come ogni composizione è frutto di continue revisioni, per cercare di avvicinarsi a quell’ideale che si ha in mente. L’improvvisazione, pur se non perfetta in se stessa, ha una sorta di perfezione in quanto vive di quel momento, non chiede futuro ma gli basta di essere per quegli istanti in cui risuona, non è soggetta a cambiamento. Potrei dire che è un’imperfetta perfezione mentre la composizione musicale è una perfezione imperfetta in quanto, pur se totalmente compiuta in apparenza, rimane sempre una possibilità tra tante, perché si consegna nello scritto al futuro.

L’improvvisazione organistica nella liturgia è connaturata alla liturgia stessa. Non si deve prima di tutto intenderla come pratica artistica perché non lo è: come la preghiera vocale presuppone che tu sappia parlare, ma non è prima di tutto una pratica letteraria ma spirituale. Così è l’improvvisazione organistica nella liturgia: presuppone l’arte e la tecnica ma non è una pratica soprattutto artistica. È anch’essa una pratica spirituale, una preghiera che nasce dalla liturgia stessa, dai suoi ritmi e dai suoi movimenti. Non abbiamo molta musica d’organo dal Rinascimento, perché probabilmente gli organisti improvvisavano come pratica corrente e anche le composizioni fissate su carta sono solo trascrizioni di queste improvvisazioni.

Oserei dire che l’improvvisazione organistica può essere avvicinata alla Lectio Divina e ne segue i quattro momenti classici: Lectio, Meditatio, Oratio e Contemplatio. Attraverso l’ascolto delle Letture e della Parola di Dio nella liturgia, l’organista è portato alla loro ruminazione, a farle sanguinare per far sì che si facciano carne nella sua anima. Da questo processo meditativo scaturisce la preghiera che si fa poi nel suo momento più intenso, contemplazione. Questa contemplazione è l’improvvisazione organistica, e non può che scaturire dalla liturgia stessa, ne è un elemento organico. In effetti, bisogna anche riflettere sul beneficio pratico dell’improvvisazione organistica quando essa è organica alla liturgia: essa, quando continua la preghiera e la accompagna, mostra l’unità fondamentale dell’agire liturgico, non solo fatto di verbosità talvolta sovrabbondanti, ma anche di suoni, odori, sensazioni, immagini: tutto è liturgia e tutto concorre alla efficacia dell’evento liturgico.

In questi giorni vado insegnando ai miei studenti la forma sonata, questo mirabile meccanismo musicale (come la fuga) che è praticamente solo un modo escogitato dai nostri grandi predecessori per organizzare le idee musicali in modo che esse possano avere una influenza maggiore su chi ascolta e migliorare la sua esperienza uditiva. Ecco, questo mi è sempre sembrato connaturato alla liturgia: l’uso sapiente di molto codici per attrarre l’attenzione non solo della mente, ma di tutte le facoltà di cui è ricco lo spirito umano. L’improvvisazione, riprendendo uno spunto melodico appena passato, continuando un’atmosfera di raccoglimento o preparando l’entrata di un inno o di una melodia che si sta per ascoltare o cantare, sta lì a dimostrare questa unità fondamentale della liturgia e lo fa con uno degli strumenti più mirabili, la musica, che ha un effetto così potente su ciascuno di noi. Certo, va benissimo anche suonare composizioni scritte, specie quando esse sono ben scelte. Ma a mio avviso, potendo scegliere, l’improvvisazione ha un’efficacia maggiore nella liturgia proprio perché la rende, se mi si passa questa definizione, “unica”, proprio perché si dona una volta per tutte, solo per quel momento nel tempo e nello spazio. L’imperfezione umana si perfeziona in quell’istante che mai più ritornerà, il tutto nel frammento. Ecco perché ne va ripensata l’efficacia e in questo modo, forse, si potrà anche allargare il discorso alla fondamentale unità della liturgia, talvolta non capita o non implementata.

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E' professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L'Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia , La Vita in Cristo e nella Chiesa. E' socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell'Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l'ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.