di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 30 settembre 2011 (ZENIT.org).- Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi (Is 5,1-7).

Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini? Gli risposero: “Quei malvagi li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: 'La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi'? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (Mt 21,33-43).

La Sacra Scrittura rappresenta spesso il popolo di Dio con l’immagine della vigna. Il lavoro attento ed assiduo che essa richiede al fine di poter ottenere e raccogliere l’uva migliore possibile, richiama idealmente la cura amorosa con cui Dio tratta il suo popolo, lo difende dai nemici e lo rallegra con il suo amore di Padre.

Questa premura materna di Dio, già cantata dal profeta Isaia, è rappresentata nella parabola odierna da tre strutture: “La ‘siepe’ è un muretto a secco, sormontato da rami di spini, per proteggere la vigna. Il ‘frantoio’ era installato per la pigiatura dell’uva, al tempo della vendemmia. La ‘torre’ era una costruzione all’interno della vigna, a difesa dai ladri e dalle bestie selvatiche, nella stagione dei frutti. Ai ‘vignaioli’ venivano affittati i poderi e le vigne da parte dei ricchi latifondisti, i quali spesso preferivano rimanere nelle città” (G. Ravasi, La Bibbia per la famiglia, N. T., p. 79). Dio alleva e protegge il suo popolo, ne favorisce la maturazione responsabile, lo difende da ogni minaccia esterna e interna, come fa una madre con il suo bambino.

Ma ecco che l’immagine radiosa e serena della vigna è oscurata dall’incomprensibile violenza omicida dei contadini, spinta fino all’assassinio dell’inerme figlio del padrone. Così, pur rimanendo intatta, la vigna cessa di essere il segno della benedizione divina (caratterizzata dalla gioia, dalla fecondità e dalla pace), per trasformarsi in terreno insanguinato di un confronto le cui conseguenze mortali ricadono fatalmente anche sui contadini responsabili.

Con questo dramma, Gesù mette in scena sotto gli occhi e alle orecchie dei suoi ascoltatori la storia dei profeti biblici, ognuno figura e annuncio della tragica fine del Messia atteso: mandato dal Padre quale segno vivente di amore, di perdono e di pace (Is 7,1), il Signore non solo non sarà accolto dai suoi (Gv 1,11), ma verrà rifiutato e ucciso, senza ragione e senza pietà. Sì, “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4), ma gli uomini hanno preferito le tenebre della morte alla luce della vita.

Tutto ciò richiama le parole del beato Giovanni Paolo II sul rifiuto della vita umana: “...la vita è sempre al centro di una grande lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre (…) Proprio nella ‘carne’ di ogni uomo, Cristo continua a rivelarsi e ad entrare in comunione con noi, così che il rifiuto della vita dell’uomo, nelle sue diverse forme, è realmente rifiuto di Cristo” (Enciclica E.V., n. 104). Quella dei vignaioli omicidi sembra dunque essere anche la parabola della “congiura contro la vita” e contro il suo Autore (E.V., n. 12).

Nella sua recente visita in Germania, Benedetto XVI ha affascinato i giovani di Friburgo parlando loro del contrasto luce/tenebre, quale cifra del mistero della fede cristiana: “Gesù che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo”(Gv 8,12) fa brillare la nostra vita...La sofferenza degli innocenti e, infine, la morte di ogni uomo costituiscono un buio impenetrabile..Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo che è risorto dai morti, brilla in questo mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano, tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte – Egli vive – e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce, e vedono già il chiarore di un nuovo giorno. Nella fede non siamo soli, siamo anelli della grande catena dei credenti. Nessuno arriva a credere se non è sostenuto dalla fede degli altri”.

Ai giovani tedeschi, Benedetto avrebbe potuto additare l’esempio luminoso di una giovane come loro, francese, che il 30 settembre 1897 moriva senza un briciolo di fede. Proprio così. Santa Teresa di Gesù Bambino, monaca carmelitana di 24 anni, patrona universale delle Missioni e Dottore della Chiesa, dopo aver goduto per tutta la vita di“una fede così viva, così chiara, che il pensiero del Cielo era tutta la mia felicità”, un anno e mezzo prima di morire, improvvisamente precipita nel buio dell’ateismo e vi rimane fino alla morte. Teresa lo racconta e lo interpreta alla maniera delle esperienze simboliche dei profeti: “Nei giorni tanto gioiosi del tempo pasquale, Gesù mi ha fatto sentire che ci sono veramente delle anime che non hanno fede, che per l’abuso delle grazie perdono questo tesoro prezioso, sorgente delle sole gioie pure e vere. Egli ha permesso che la mia anima fosse invasa dalle tenebre più fitte e che il pensiero del Cielo, così dolce per me, non fosse più altro che un motivo di lotta e di tormento”(Ms C, 4v-5r).

E’ la prova misteriosa di una solidarietà riparatrice e missionaria da lei accettata prontamente: “Ma, Signore, la vostra figlia l’ha capita la vostra luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di mangiare per quanto tempo vorrete il pane del dolore e non vuole affatto alzarsi da questa tavola piena d’amarezza, alla quale mangiano i poveri peccatori, prima del giorno stabilito..Così ella può dire a nome suo, a nome dei suoi fratelli: Abbiate pietà di noi Signore, perché siamo poveri peccatori!...Oh! Signore, rimandateci giustificati...Che tutti coloro che non sono affatto illuminati dalla luminosa fiaccola della fede la vedano finalmente brillare...O Gesù, se è necessario che la tavola insudiciata da essi sia purificata da un’anima che vi ama, accetto di mangiarvi da sola il pane della prova, fino a quando vi piaccia introdurmi nel vostro regno luminoso. La sola grazia che vi domando è di non offendervi mai!” (ibid).

Ogni cristiano è tenuto ad imitare la piccola Teresa: se vuole essere fedele a Gesù, deve soffrire in riparazione del male che insanguina il mondo, senza sep ararsi dai peccatori, ma in solidarietà con loro e con Gesù, l’“Agnello di Dio, colui che porta il peccato del mondo” (Gv1,29).

Il canto della vigna amorosamente piantata e curata dal suo padrone è anche la parabola del dono eterno della vita umana. Dio ci ha creati per un destino di felicità senza fine: la dolcezza dell’uva e l’ebbrezza del vino. Noi non siamo padroni, ma operai responsabili della vigna della vita, e Dio ce ne chiederà i frutti. Chi vive come se Dio non ci fosse, colpevolmente sordo ai suoi messaggi e messaggeri, sceglie da se stesso un futuro di profonda infelicità, prima in questo mondo e poi per sempre nell’altro. In questa nostra società, ne è segno evidente il disprezzo della vita umana, dal concepimento al termine naturale della sua stagione terrena. In verità, il rifiuto della vita nel grembo costituisce la pietra angolare perversa del laicismo relativista ed ateo nel mondo intero. Ma il peccato contro la vita non deve portarci a giudicare chi lo commette; piuttosto, esso deve sollecitare la preghiera e l’offerta riparatrice di tutti, per “recare il nostro contributo all’applicazione dei frutti della riconciliazione all’universo di oggi” (b. Giovanni Paolo II). Con quella fiducia ed abbandono alla volontà di Dio che caratterizzano la “piccola via” di Teresa.

Confidando totalmente e ciecamente nella grazia divina, sappiamo di poter affrontare e sconfiggere il Male con l’audacia di una fede pressoché invincibile.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.