di padre Angelo del Favero*

1 Ts 2.7b-9.13
Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre, che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Vi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il Vangelo di Dio

Mt 23,1-12
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri..; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi.., dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”(…). Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato”.

Ricordando con toni affettuosi il suo soggiorno a Tessalonica, Paolo traccia il ritratto autobiografico dell’annunciatore del Vangelo: afferrato dall’amore di Cristo, convinto della necessità di soffrire con gioia per il Vangelo, pronto a lottare con il coraggio di una madre che difende il suo bambino, l’araldo della buona Novella dovrà mostrarsi nello stesso tempo pastore amorevole, premuroso, affezionato ad ognuna delle sue pecore più che alla propria vita.

Richiamando più volte il proprio affetto fraterno, l’apostolo sembra suggerire ai missionari del Vangelo di farsi suoi imitatori non solo nella pratica concreta (1 Cor 11,1), ma anche nell’atteggiamento del cuore.

E’ in questi termini che Benedetto XVI (umile ed infaticabile protagonista della nuova evangelizzazione), ha chiamato a raccolta i credenti indicendo l’Anno della fede. Ecco, infatti, la sua consegna precisa: “Nella quotidiana riscoperta dell’amore di Cristo attinge forza e vigore l’impegno missionario dei credenti, che non può mai venire meno” (Lettera Apostolica “Porta fidei” n.7).

I nuovi apostoli del Vangelo dovranno dare testimonianza di affetto reciproco intenso e puro, profondamente libero, pronti a donare la vita per Cristo e per i fratelli. Perciò sarà necessario che tutti i credenti vivano un rapporto di amicizia fortissima con il Signore Gesù, non solo non comportandosi da nemici della sua Croce, ma rimanendo sempre presso di essa, assieme a Maria sua Madre.

In tema di tale testimonianza, purtroppo, fa più notizia il caso raro opposto (specie se gravemente negativo) che l’esemplare, spesso eroica fedeltà della grande maggioranza dei sacerdoti. Anche fra questi ultimi, tuttavia, non mancano comportamenti incoerenti, che sconcertano i fedeli impedendo di edificare le comunità nell’amore.

E’ di questi cattivi esempi che Gesù oggi parla nel Vangelo, indicando (per contrasto) il criterio interiore irrinunciabile per un’efficace nuova evangelizzazione: “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalta, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,11-12).

Quello che Gesù “dipinge”, è il ritratto del ministro responsabilmente incoerente, fariseo in condotta, ricco di occulta superbia e palesemente geloso delle proprie prerogative. Egli da’ scandalo, ma sembra non rendersene conto mentre predica ciò che non fa; oppure si autogiustifica in nome dell’efficacia intrinseca del seme della Parola divina, che non può essere vanificata dalla naturale debolezza del seminatore.

Così, mancando il sale della testimonianza sincera, sulla bocca di un tale annunciatore la Parola è una luce tenuta nascosta dalla sua stessa vita (Mt 5,13-16), ed egli rischia di nuocere alla nuova evangelizzazione più di un avversario della fede (“Porta fidei”, n. 3).

Leggendo il Vangelo odierno, si ha quasi l’impressione che Gesù esageri con tinte plateali la rappresentazione sfigurata degli scribi e dei farisei, tanto che il moto primo può essere quello di un sorriso da spettatore che pensa “non sono io”.

In realtà, la denuncia e l’avvertimento del Signore sono del tutto attuali, dato che non è poi così rara la tristezza di esempi simili nei sacerdoti “in cura d’anime”, nelle persone consacrate, negli appartenenti ai Movimenti ecclesiali, nei laici catechisti, ecc..

L’osservazione non vuole essere né ingiusta, né polemica, ed interpella anzitutto la mia coscienza.

Voglio qui ricordare le parole con cui il beato Giovanni Paolo II ha introdotto la missione della nuova evangelizzazione nel terzo millennio: “E in primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità. (…) E’ un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, n. 30).

Infine, ecco cosa ha scritto un grande teologo: “Il fatto che la Chiesa abbia ricevuto nella sua istituzione e tradizione, nella sua gerarchia, nei suoi sacramenti e nelle sue forme, la promessa di una santità oggettiva, inespugnabile per le potenze dell’inferno, garantisce la continuità della sua missione divina sino alla fine dei tempi; però non la dispensa in nessun modo dal perseguire una santità soggettiva e personale; anzi tutto ciò che è istituzionale e soggettivo esiste solo in funzione di questa santità di vita. L’ufficio del sacerdote esiste per la comunità, le fonti di grazia dei sacramenti esistono per coloro che vi si accostano, la Parola di Dio esiste per chi l’ascolta. E quanto più una persona, come sacerdote, come membro di un Ordine religioso o come depositario di una grazia sacramentale, è vicina alle fonti della santità oggettiva della Chiesa, tanto più è obbligato ad aprire e adeguare la propria vita alla santità oggettiva che egli serve e custodisce. La santità, soggettivamente intesa, si identifica con l’amore, che preferisce Dio e gli uomini a se stesso, che cioè vive per la comunità della Chiesa” (Hans Urs von Balthasar, Sorelle nello Spirito. Teresa di Lisieux e Elisabetta di Digione, Introduzione).


* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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Intervento ad Assisi del Segretario Generale del CEC

ASSISI, giovedì, 27 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Di seguito, pubblichiamo il testo dell’intervento del Rev. Dott. Olav Fykse Tveit, Segretario Generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), alla Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo svoltasi questo giovedì ad Assisi.

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Santità,
Eminenze, Eccellenze, distinti leaders religiosi,

San Francesco ci offre l’ispirazione su come la fede in Dio, il dialogo aperto e l’incontro sincero possano portare a contributi significativi per una pace giusta.

Il mondo ha bisogno di costruttori di pace a partire dalla fede. Le comunità di fede, come le 349 chiese del Consiglio Ecumenico delle Chiese, hanno bisogno di giovani “portatori di cambiamento” del mondo. Francesco era un giovane quando si arrese a Dio. La sua passione per la bontà della creazione e l’esempio di radicale audacia per la pace mostrano l’importanza della fede e il coraggio dei giovani.

Ciò che Francesco ha compiuto da giovane, nei suoi vent’anni, è per noi un richiamo salutare all’importanza del ruolo che i giovani devono e possono svolgere sia nelle comunità di fede che nel più ampio contesto sociale. Senza questo, non saremmo qui oggi.

Anche oggi, la pace nel mondo richiede le idee e il contributo dei giovani. Un grande ostacolo ad una pace giusta è oggi rappresentato dall’alto livello di disoccupazione tra i giovani in tutto il mondo. Si ha la sensazione che stiamo mettendo in gioco il benessere e la felicità di una generazione. Abbiamo bisogno della visione e del coraggio dei giovani per i cambiamenti necessari.

Vediamo come i giovani guidino oggi i processi di democratizzazione e di pace in molti Paesi. Dobbiamo riconoscere che non siamo sempre stati capaci nel dare il giusto tributo e nel sostenere l’apporto che i giovani possono offrire nelle nostre comunità. Noi anziani qui presenti abbiamo bisogno di lavorare insieme per la pace tra generazioni e di dare ai giovani in tutto il mondo una reale speranza per il futuro.

Il mondo ha bisogno di incontri tra i capi delle comunità religiose. Nel mezzo di una guerra di cui Gerusalemme era la meta finale, Francesco venne per condividere esperienze di fede con il Sultano in Egitto. Come molti crociati, egli venne per convertire l’altro. Si trovò invece cambiato, convertito, lui stesso.

Siamo qui per lasciare che la conversione di Francesco ci parli e per fare sì che la conversazione tra di noi divenga una sorgente di giustizia e di pace. C’è da guadagnare di più mediante il rispetto per l’altro. Una pace sostenibile richiede che vi sia uno spazio, uno spazio sicuro e senza pericoli, non solo per me,ma anche per l’altro. I cristiani devono ricordarsi che la croce non è per le crociate, ma è un segno di come l’amore di Dio abbracci tutti, anche l’altro.

Per il Consiglio Ecumenico delle Chiese un preciso impegno per i prossimi anni sarà quello di lavorare per una pace giusta a Gerusalemme e per tutti i popoli che vivono in Gerusalemme e attorno a quella città che ha Shalom – Salaam nel suo nome. È la città che per il suo nome è chiamata ad essere una visione di pace,ma che nel corso della storia è divenuta così spesso un luogo di conflitto. Mentre visitavo il Pakistan qualche giorno fa, mi sono reso conto di come altri popoli stiano soffrendo a motivo di scontri tra interessi diversi, come conseguenza del fatto che il conflitti attorno a Gerusalemme non sono ancora risolti. Questa città, santa per Ebrei, Cristiani e Musulmani, è un simbolo visibile del nostro anelito, dei nostri migliori e più alti desideri, del nostro amore per la bellezza e del nostro desiderio di servire Dio. Ma è anche un potente richiamo a come le cose migliori possano anche volgersi per il peggio. Nel corso della storia, gli esseri umani hanno trovato così difficile amare senza cercare al tempo stesso di possedere in maniera esclusiva.

Preghiamo, come leaders religiosi, per la giustizia e la pace per Gerusalemme e per tutti coloro che là vivono. In un modo misterioso, Gerusalemme non si limita a svelarci queste realtà circa la condizione umana, ci sfida anche a confrontarci con esse. I Cristiani credono che ogni essere umano sia creato ad immagine di Dio, affermando di conseguenza l’inalienabile dignità umana di ogni persona e l’unità dell’umanità. Siamo chiamati a partecipare al ri-stabilimento della pace per Gerusalemme per ri-creare e riparare il mondo di Dio. Siamo responsabili davanti a Dio e gli uni davanti agli altri per la pace nel nostro tempo e per ciò che diciamo o che non diciamo per raggiungerla. Seguiamo insieme l’esempio di San Francesco e di altri, giovani e vecchi, uomini e donne, per suscitare fra noi il coraggio di costruire una pace giusta.

Discorso di Bartolomeo I alla Giornata per la pace ad Assisi

ASSISI, giovedì, 27 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso che Sua Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, ha pronunciato questo giovedì ad Assisi in occasione della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo.

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Santità, Eminenze, Eccellenze,
Rappresentanti delle diverse religioni del mondo,
Signori e Signore, Cari amici,