di Cristina Rolando*
ROMA, domenica, 5 settembre 2010 (ZENIT.org).- Offrire una risposta a questa domanda significa intanto riconoscere che, diversamente da ogni altro soggetto appartenente alla natura, l’uomo ha in sé un valore intrinseco: la dignità.
Ma perché essa – la dignitas – appartiene esclusivamente alla persona? E cosa si intende per persona? Intanto occorre una definizione concettuale del termine, univoca e condivisa. E ciò non sembra particolarmente arduo ove si faccia riferimento ad alcune correnti filosofiche del ’900 che ritengono sinonimiche le espressioni essere umano e persona, sovrapponendo la riflessione antropologica a quella personalistica in quanto identificabili.
Queste affermazioni devono, tuttavia, ritenersi attuali anche nel contesto culturale della postmodernità? Ictu oculi sembrano inadeguate, posto che sul significato di persona regna la più totale confusione fondata, evidentemente, sulla stessa idea di soggettività[1]; infatti, il valore che detto termine assume nel dibattito bio-etico è talmente variabile da generare dubbi sul carattere sempre personale della esistenza umana.
Proprio a dimostrazione di ciò, alcuni studiosi[2] hanno negato valore alla vita prenatale e terminale, a quella degli infanti e dei portatori di handicap particolarmente gravi. Questi soggetti – ritenuti individui e non persone – non vanterebbero alcun valore intrinseco; anzi, una eventuale tutela loro accordata sarebbe “indiretta”, in quanto deriverebbe dalla sola volontà sociale di offrire una difesa a colui – umano, invece, a pieno titolo – che, in favore di costoro, effettuasse un “investimento” ad esempio affettivo. È il caso del genitore verso i figli.
Le ragioni che determinano confusione sull’idea di persona, pur se complesse, sono comunque riconducibili ad un atteggiamento filosofico empirista, radicato sulla negazione di qualsivoglia fondamento ontologico.
Auspicare la riviviscenza delle teorie metafisiche classiche, dense di argomentazioni teoretiche, non è, tuttavia, sufficiente a contrastare tale crisi concettuale.Ma un dato sembra rilevante: quando la tradizione del pensiero occidentale cristiano ha ritenuto necessario esprimere glottologicamente la dignità specifica degli esseri umani, si è avvalsa di una espressione metaforica e non, invece, di un termine inequivocabile per valenza semantica. Ma per quanto necessaria, tale figura retorica non ha mai convinto del tutto, ed è proprio per questo che il linguaggio scientifico ha sempre escluso qualsiasi tentazione metaforizzante.
L’etimologia latina del termine persona è nota. Indica la maschera indossata in scena dagli attori per amplificare la voce (per-sonare) al fine di essere udita anche dagli spettatori seduti agli ultimi posti. Tuttavia, pur se coniato per indicare colui che era chiamato a recitare un ruolo sul palcoscenico, il termine venne successivamente esteso a tutti gli uomini in quanto destinatari, nel vasto teatro del mondo, del fondamentale dovere di ben interpretare la parte attribuita a ciascuno da Dio, dal destino, dalla società o dalla loro stessa volontà. Nel celebre monologo “All the world’s a stage and all the men and women merely players…”, che Shakespeare fa pronunciare a Jaques[3], il tema acquista infine una sua cristallizzazione decisiva.
Dunque persona è colui che è causa del proprio agire.Ma tale definizione non ne circoscrive l’operatività ad un ambito meramente antropologico-filosofico, anzi desta l’interesse dei teologi cristiani che vedono in questo termine l’espressione idonea a definire il dogma trinitario.
L’unicità di Dio viene infatti coniugata da questa verità di fede con la trinità del suo agire, come Padre creatore, come Figlio redentore e come Spirito Santo attore nella storia; un solo Dio che, evidentemente, si manifesta agli esseri mortali come tre persone. E ciò non deve stupire, poiché in una prospettiva di teologia rivelata, l’uomo è persona sia perché creato ad immagine di Dio – un Dio personale, che agisce –, sia perché chiamato da Dio ad operare in quanto soggetto libero e responsabile, secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum arbitrium habens et quorum operum potestatem[4]. L’imago dei – sostiene sant’Agostino – è dato ontologico, non cancellabile dal peccato né dall’agire dell’uomo carnale (De Trinitate, XIV.4.6).
NOTE:
[1] In evidente contrapposizione al tentativo cartesiano di ricondurre la soggettività al pensiero, LICHTENBERG riteneva non corretto dire“io penso”(Ich denke) mentre sarebbe stato opportuno affermare Es denkt, anticipando la contestazione lacaniana al cogito di Cartesio (Ecrits, Paris, Press universitarie de France, 2000, 517): «je pense où je ne suis pas, donc je suis où je ne pense pas». La soggettività umana cominciava evidentemente a smarrirsi; e il tema anticartesiano, già pienamente presente in Schopenhauer, veniva ripreso con vivacità da Nietzsche («..un pensiero viene quando è“lui”a volerlo e non quando“io”lo voglio»), diventando stabilmente oggetto del paradigma psicoanalitico. Su queste basi diminuiva, conseguentemente, l’esigenza di fornire un solido fondamento all’io. Esisteva, poi, anche chi si era determinato a credere che il problema dell’identità personale assumesse una valenza del tutto irrilevante. cfr. PARFIT, Reason and Persons,Oxford, Clarendon Press, 1992.
[2] Il riferimento va ricondotto, in particolare, ad autori quali SINGER e ENGELHARDT JR.
[3] Personaggio della celebre commedia “Come vi piace”, composta intorno al 1600 da William Shakespeare.
[4] La citazione è tratta dal Prologus della Prima Secundae della SummaTheologiae di TOMMASO D’AQUINO.
* Cristina Rolando è avvocato e docente. Fa parte del Comitato editoriale della Rivista “Iustitia”, edita dalla Casa Editrice Giuffrè, ed è docente di Istituzioni di Diritto Privato presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
Ha pubblicato numerosi saggi e volumi, tra cui “Alimenti e mantenimento nel diritto di famiglia. Tutela civile, penale, internazionale” (Giuffrè 2008) e “Bioetica e persona. Quale rapporto?” (Edizioni Art 2009).