di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 14 settembre 2010 (ZENIT.org).- Ormai è evidente: in Italia è in corso un vero e proprio “Rinascimento chestertoniano”. Un revival in piena espansione. L’oculatezza di alcuni editori e la passione dei tanti lettori è riuscita a riportare nelle nostre librerie molti titoli del geniale scrittore che mancavano da decenni. Solo negli ultimi mesi, Morganti ha dato alle stampe la nuova traduzione del romanzo La sfera e la croce, Fede&Cultura ha pubblicato una raccolta di preghiere commentate da brani di G.K. Chesterton – Le preghiere dell’Uomo Vivo –, Raffaelli ha presentato l’inedito La fine della strada romana, mentre Lindau ha sfornato ben quattro titoli in nuova traduzione: alcuni tra i migliori saggi di Chesterton – Eretici, Ortodossia, Autobiografia – e il suo primo romanzo, Il Napoleone di Notting Hill (Lindau 2010, pp. 232, € 17). Proprio quest’ultimo titolo merita una parola di spiegazione. Perché è un racconto allo stesso tempo visionario, profetico e intimamente autobiografico.

Scritto nel 1904 e ambientato nella Londra di cento anni dopo, Il Napoleone di Notting Hill immagina che la democrazia, morta per l’indifferenza dei cittadini, sia stata soppiantata da una “tirannia morbida”: di volta in volta, il sovrano è una persona qualunque sorteggiata a caso tra gli abitanti. Il nuovo re è Auberon Quin, un impiegato così afflitto dalla monotonia della propria esistenza da ripristinare – per puro divertimento personale – l’indipendenza degli antichi sobborghi di Londra. Come in un nuovo Medioevo delle gilde o in un Rinascimento dei comuni, Kensigton, Hyde Park, West Hampstead, Wimbledon e via dicendo si dotano di uno stemma araldico e di un sindaco, di un corpo di guardia con tanto di divise proprie, nonché di tradizioni e rituali originali. Ma quella che era cominciata come la stramberia di un Re buontempone finisce per tramutarsi in una contagiosa ondata di patriottismo locale. La scintilla scocca quando due sindaci presentano il progetto di una moderna via commerciale che unirà i loro municipi, anche se per farlo bisognerà abbattere un gruppetto di case nel quartiere di Notting Hill. Peccato che il suo sindaco, Adam Wayne, non esiti un solo istante a impugnare la spada e a guidare i suoi cittadini alla guerra civile per la salvezza di quel quartiere che consiste… in un viottolo, un pub e quattro botteghe. Nulla di più. Pump Street è la strada qualunque, dove si è giocato da bambini, dove si sono vissuti i primi amori, la strada percorsa da padri, madri, nonni e trisavoli. Una strada impregnata dalla vita e dai sentimenti della gente comune, pertanto una strada sacra ed eroica. E allora perfino un rigattiere o un giocattolaio diventano qualcosa da difendere con la propria vita, qualcosa che non può essere ceduto in cambio di vantaggi economici. Chesterton scriveva questa favola nel 1904, quando l’Impero britannico comincia a manifestare i primi sintomi del declino, e viene da sorridere pensando a quanti film – nei decenni successivi – cominceranno con una casa o una scuola minacciata dal sopravanzare di grattacieli o di centri commerciali più mastodontici delle antiche cattedrali. Chissà come cambierebbe il volto delle nostre metropoli se ogni cittadino fosse divorato dal desiderio di difendere il proprio quartiere... per quanto piccolo, marginale o circondato da una cattiva fama. In fondo, anche di un altro minuscolo villaggio non si era detto: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?».

Provocatorio e divertito, Il Napoleone di Notting Hill non va comunque preso per un manifesto no global ante litteram né per un anacronistico elogio del campanilismo. Quello che Chesterton vuole dire, ben più semplicemente, è che non si possono avere a cuore le sorti del mondo se non si avverte il dovere di difendere quelle quattro mura che ci hanno visti crescere, proprio come non si può amare il Terzo Mondo se si snobba il vicino di casa. La battaglia che Adam Wayne ingaggia in nome di una strada qualsiasi è la battaglia di chi ha compreso che la sola felicità – e la sola universalità – consiste nel trovare qualcosa di ben preciso da amare, e quindi da difendere. Per trovare il Cielo bisogna abbarbicarsi a qualcosa di terreno, concreto e limitato: «Quando un bambino esce in giardino e si aggrappa a un albero dicendo: “Quest’albero è tutto ciò che possiedo”, in quel momento le sue radici affondano nell’inferno e i suoi rami si aggrappano alle stelle». Il minuscolo albero è divenuto grande come l’universo stesso. Il minuscolo albero è l’universo stesso: “il tutto nel frammento”, secondo la fortunata formula.

C’è un’ultima considerazione da fare a proposito del Napoleone di Notting Hill e riguarda il particolare senso dell’umorismo di re Auberon Quin. Auberon ritiene che l’umorismo sia la sola cosa sacra rimasta all’umanità, la sua ultima religione, poiché l’uomo moderno non possiede più altro piacere se non quello dell’insensatezza. Parole difficili da capire, ma che vengono illuminate da un articolo che Chesterton dedicò,tre anni prima, proprio al nonsense. Questo genere di umorismo – egli ritiene – è «destinato ad essere la letteratura del futuro», poiché verrà «in soccorso della concezione spirituale delle cose. Sono secoli che la religione cerca di far gioire gli uomini delle meraviglie del creato, ma s’è scordata che non c’è niente che possa davvero apparire meraviglioso finché continuerà ad essere sensato. […] il nonsense e la fede, per quanto strano possa apparire il connubio, sono le due supreme affermazioni simboliche di questa verità: non è possibile estrarre l’anima delle cose con un sillogismo» (Difesa del nonsense, 1901). Il nonsense fa esplodere le soffocanti categorie della logica. Scombussola le carte del visibile e del convenzionale. E’ la strada di chi non si accontenta della routine. L’umorismo metafisico è fatto per chi cerca un modo sempre nuovo di vedere le cose. Proprio come insegna a fare la fede. La letteratura dell’assurdo sarebbe nata solo dopo il dramma delle due Guerre mondiali, eppure, ancora a inizio secolo, Gilbert K. Chesterton era già andato molto più in là.

Un assaggio dell’opera

In un luogo in cui il buio durava da ore, da ore v’era anche silenzio assoluto. Poi una voce parlò nel buio, nessuno avrebbe potuto dire da dove provenisse: «Così finisce l’Impero di Notting Hill. Come cominciò, nel sangue, così finisce, nel sangue: tutto è sempre uguale».

E ci fu di nuovo silenzio, e poi di nuovo una voce, ma non con lo stesso tono: non sembrava la stessa voce.

«Se tutto è sempre uguale, è perché tutto è sempre eroico. Se tutto è sempre uguale, è perché tutto è sempre nuovo. A ciascun uomo è data una sola anima; a ogni anima è dato solo un piccolo potere: il potere in alcuni momenti di crescere a dismisura e inghiottire le stelle. Se epoca dopo epoca quel potere cade sugli uomini, qualsiasi cosa dia loro è grandioso. Qualsiasi cosa faccia sentire vecchi gli uomini è meschino: sia essa un impero o il negozio di uno spilorcio. Qualsiasi cosa faccia sentire gli uomini giovani è grandioso: una grande guerra o una storia d’amore. E nel più oscuro dei libri di Dio è scritta una verità che è anche un enigma: è delle cose nuove che gli uomini si stancano, delle mode e delle proposte e dei miglioramenti e del cambiamento. Sono le cose vecchie che spaventano e intossicano. Sono le cose vecchie a essere giovani. Non v’è scettico che non senta che in molti prima di lui hanno dubitato. Non v’è uomo ricco e volubile che non senta che tutte le sue novità sono vecchie. Non v’è uomo fedele ai cambiamenti che non senta sul collo l’enorme peso della stanchezza dell’universo. Ma a noi che facciamo cose vecchie la natura dona una perpetua infanzia. Nessun uomo innamorato pensa che chiunque è s tato innamorato prima di lui. Nessuna donna che ha un figlio pensa che i bambini sono sempre esistiti. Nessun popolo che combatte per la propria città sente il fardello degli imperi crollati. Sì, o voce oscura, il mondo è sempre lo stesso, perché è sempre inaspettato».

Una leggera folata di vento attraversò la notte, poi la prima voce rispose:

«Ma in questo mondo c’è qualcuno, saggio o folle, che niente riesce a inebriare. Per alcuni tutte le vostre inquietudini non sono che un nugolo di mosche. Essi sanno che mentre gli uomini rideranno davanti alla vostra Notting Hill, e studieranno e ripeteranno e canteranno di Atene e Gerusalemme, Atene e Gerusalemme non erano che stupidi sobborghi come la vostra Notting Hill. Essi sanno che la terra stessa è un sobborgo, e possono solo divertirsi paurosamente e rispettabilmente mentre si muovono su di essa».

«Sono filosofi o stolti» fece l’altra voce. «Non sono uomini. Gli uomini vivono, come ho detto, si rallegrano di epoca in epoca di qualcosa di più fresco del progresso, del fatto che con ogni neonato viene creato un nuovo sole e una nuova luna. Se la nostra antica umanità fosse di un solo uomo, forse potrebbe spezzarsi al peso del ricordo di tante lealtà, sotto il fardello di tanti diversi eroismi, sotto il carico e il terrore di tutta la bontà degli uomini. Ma ha fatto piacere a Dio isolare la singola anima in modo che possa imparare dalle altre anime solo per sentito dire, e far giungere a ciascuna la bontà e la felicità con la giovinezza e la violenza del fulmine, altrettanto momentanea e pura. E la sorte del fallimento che incombe su tutti i sistemi umani in realtà non li intacca più di quanto i vermi dell’inevitabile tomba influiscano sul gioco dei bambini in un prato. Notting Hill è caduta, Notting Hill è morta. Ma non è questa la cosa straordinaria. Notting Hill ha vissuto».

«Tuttavia» riprese l’altra voce, «se quanto si riesce a ottenere con tutti questi sforzi fosse solo il comune appagamento dell’umanità, perché gli uomini tribolano e muoiono per causa loro, non è stravagante? È stato fatto nulla da Notting Hill che un qualsiasi gruppetto casuale di contadini o tribù di selvaggi non avrebbe fatto senza di essa? “Che cosa si sarebbe potuto fare per Notting Hill se il mondo fosse stato diverso?” potrebbe essere una domanda profonda, ma ve n’è una più profonda: “Che cosa sarebbe successo al mondo se Notting Hill non fosse mai esistita?”».

L’altra voce replicò:

«La stessa cosa che sarebbe successa al mondo e a tutti i sistemi stellari se un melo producesse sei mele anziché sette: qualcosa sarebbe andato perso in eterno. Non c’è mai stato niente al mondo di assolutamente simile a Notting Hill. Non vi sarà mai niente di abbastanza simile al tracollo del destino. Io non credo a nulla se non al fatto che Dio la abbia amata come sicuramente deve aver amato qualunque cosa sia se stessa e insostituibile. Ma neanche per questo mi preoccupo. Se Dio, con tutti i Suoi tuoni l’avesse odiata, io l’ho amata».

E insieme alla voce si alzò una figura alta e strana dai débris della semioscurità. Dopo una lunga pausa si sentì di nuovo la seconda voce, come se fosse rauca.

«Ma supponiamo che tutta la faccenda fosse davvero una formula magica. Supponiamo che qualsiasi significato possiate scegliere per essa nella vostra immaginazione, il vero significato del tutto era una beffa. Supponiamo che fosse follia. Supponiamo…»

«Io ci sono stato» rispose la voce della figura alta e strana, «e so che non era questo il significato».

Una figura più piccola sembrò levarsi a metà nel buio.

«Supponiamo che io sia Dio» fece la voce, «e supponiamo che abbia creato il mondo per pigrizia. Supponiamo che le stelle, che voi ritenete eterne, siano solo gli sciocchi fuochi d’artificio di un eterno scolaro. Supponiamo che il sole e la luna, a cui voi cantate in alternanza, siano solo gli occhi di un immenso gigante beffardo, che si aprono alternandosi in un ammiccamento infinito. Supponiamo che gli alberi, ai miei occhi, siano assurdi ed enormi funghi velenosi. Supponiamo che Socrate e Carlo Magno siano per me solo delle bestie, divertenti per la loro andatura sulle zampe posteriori. Supponiamo che io sia Dio, e abbia creato le cose e abbia riso di loro».

«E supponiamo che io sia un uomo» rispose l’altro. «E supponiamo che io dia una risposta che distrugge perfino la risata. Supponiamo che io non ricambi le vostre risate, non vi bestemmi, non vi ingiuri. Ma supponiamo che, diritto sotto il cielo, con ogni potere del mio essere, vi ringraziassi per il paradiso di stolti che avete creato. Supponiamo che io vi lodi, in una vera e propria estasi dolorosa, per lo scherzo che mi ha dato una gioia tanto straordinaria. Se abbiamo preso i giochi di un bambino e dato loro la serietà di una crociata, se abbiamo bagnato il vostro grottesco giardino olandese con il sangue dei martiri, abbiamo trasformato un asilo infantile in un tempio. Allora vi chiedo, in nome del Cielo, chi vince?».

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.