Educazione e laicità?

Il Cardinale Scola per i 150 anni del Collegio Canova Istituto Cavanis

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VENEZIA, sabato, 10 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, il 6 marzo scorso al Collegio Canova Istituto Cavanis di Possagno per la celebrazione dei 150 anni di vita dell’istituto.

 

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Premessa

«Cinquant’anni di povertà e di lotte, come si conveniva ad un nuovo tipo di scuola che fosse gratuita, libera e aperta». Così si legge a pagina 8 del volume dal titolo “I Venerabili Servi di Dio P. Antonio e P. Marco Cavanis” a proposito della loro vita interamente spesa al servizio di Dio e della gioventù.

Certamente, nel panorama della proposta educativa del Patriarcato di Venezia, delle nostre terre venete e ormai in diversi continenti, ma più in generale nel nostro Paese, l’opera dei Fratelli Cavanis brilla come fulgido esempio di un modello di scuola che, con la straordinaria capacità di precorrere i tempi spesso propria dei santi, appare oggi più decisivo che mai per la edificazione di una vita buona personale e sociale. Decisivo, ma purtroppo ancora troppo spesso frainteso, quando non apertamente osteggiato, perché vittima di riduzioni ideologiche che ne pregiudicano la retta comprensione.

Per questo non mi sembra inutile, prima di addentrarmi a descrivere sinteticamente quelle che sono, a mio giudizio, le strutture portanti di un sistema educativo autenticamente laico ed adeguato ad una società plurale come la nostra, proporre qualche considerazione che aiuti a chiarire i termini essenziali della questione educativa.

1. Un significativo conflitto di linguaggi

Anzitutto occorre fare una constatazione. Quando oggi in Italia si ragiona intorno al carattere della scuola, colpisce come avvenga una sorta di distorsione semantica negli aggettivi che ad essa si riferiscono, a seconda che vengano adoperati a partire dai diversi approcci ideologici. Distorsione che non di rado genera conflitto.

Facciamo qualche esempio. Una scuola “libera” è, secondo alcuni, una scuola libera da vincoli ideologici di tipo identitario. Per altri, invece, la scuola è libera proprio in quanto può trasmettere un sistema coerente di valori legati ad una precisa concezione di vita senza costrizioni da parte dello Stato.

Per gli uni, una scuola è indipendente perché in un contesto di finanziamento centralizzato può operare senza preoccuparsi di competere sul “mercato” per affermare la propria qualità; per gli altri, è indipendente perché grazie alla sua qualità (intesa come capacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni degli “utenti”) resta sul “mercato” senza dipendere dallo Stato.

2. A proposito di laicità

Non è necessario sottolineare che questo significativo conflitto di linguaggi trova il suo zenit nell’uso del termine laico. Anche questo termine è impiegato con significati assai diversi e spesso contraddittori.

Il concetto di laicità oggi più diffuso poggia su un presupposto acritico e non dichiarato. Considera che, in una società democratica plurale, il rapporto tra il singolo individuo portatore di diritti fondamentali e lo Stato si possa correttamente dare solo a patto di non introdurre tra i due, in nessuna forma, altri elementi di riferimento e di mediazione. In questo contesto, la religione – o più in generale una ben identificabile Weltanschauung – costituirebbe un “terzo incomodo”, tollerabile solo se si riduce a fatto privato proprio del singolo individuo. È la fase ulteriore del processo per cui «la globalizzazione enfatizza una soluzione di neutralità culturale: per la democrazia occidentale odierna tutte le religioni sono “uguali” (in-differenza). La sfera pubblica è dichiarata neutrale verso le religioni (…) Alle diverse religioni si chiede e si impone di considerare il loro universalismo come un fatto privato…»[1].

In ambito scolastico questa posizione implica necessariamente l’opzione per un sistema che si vuole neutro o indifferente. Un sistema che, rinunciando a una proposta di senso, considera di fatto l’educazione prevalentemente come addestramento o apprendimento di technicalities. Senza dover esaminare in dettaglio i termini di questa proposta non ci si può impedire di rilevare che sistemi di questo tipo finiscono nelle secche di quel razionalismo intellettualistico che ancor oggi, con diverse varianti, inficia una grande parte delle istituzioni educative. Esso si esprime, da una parte, nella pretesa di “attrezzare” l’educando fornendogli una sempre più articolata gamma di competenze; dall’altra nel considerarlo come una sorta di monade autosufficiente, sciolto da ogni legame. Nozionismo ed abilità tecnico-pratiche da fornire ad un individuo separato: a questo si riduce spesso l’educazione nelle nostre società sviluppate.

La domanda che si impone allora è chiara: è accettabile l’equivalenza tra laicità e neutralità o indifferenza?

Per rispondere a questa domanda è necessario chinarci, sia pur sommariamente, sulla natura del fenomeno educativo come tale, imprescindibile punto di riferimento, di fatto o di diritto, del sistema scolastico.

3. Educazione come relazione

a) Rendere possibile un’esperienza integrale

«La cosa più importante nell’educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento»[2] così Jacques Maritain, andando al cuore della questione educativa, individua l’inquietante eppure appassionante paradosso di cui ogni vero educatore è ben consapevole. E, subito dopo, ne indica la ragione: «L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso»[3].

La categoria di esperienza – assunta nella sua integralità, una volta sgombrato il campo da ogni riduzione psicologico-soggettivistica del termine – è il cardine della proposta educativa. L’esperienza integrale può garantire il processo educativo perché garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di un individuo fino alla loro realizzazione e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà[4]. Realtà in tutte le sue dimensioni, intesa quindi come esistente umano, esistente storico, esistente vitale, esistente cosmico. Dimensioni cariche di implicazioni tra le quali la principale è Dio.

Una simile concezione dell’educazione comporta un giudizio positivo sulla realtà. Il reale, al di là delle tensioni drammatiche che lo attraversano, al di là della sua stessa contingenza, è un bene. L’educazione, per dirla con la celeberrima definizione di Jungmann, è introduzione alla realtà totale («eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit») proprio perché la realtà totale corrisponde – “corrispondenza” è la parola che traduce la cum-venientia dei medioevali – al cuore (alle esigenze costitutive) dell’uomo. E corrisponde perché è per il bene dell’uomo. Quindi è un positivo.

Come si rivela questa percezione della positività del reale? Si rivela a partire dalla sua natura di avvenimento. Il mistero dell’essere si dona nel reale, perciò ogni manifestazione del reale si presenta come evento (dal latino e-venio) che int
erpella la nostra libertà provocandola ad aderire.

In questo senso l’educatore, cercando di introdurre l’educando in un’esperienza integrale della realtà, lo conduce progressivamente a coglierne la natura propria, quella cioè di essere, in tutte le sue manifestazioni, segno del Mistero. E per i cristiani il volto del Mistero è quello del Padre che ci è stato rivelato da Gesù.

b) Natura inter-personale dell’educazione: autorità e tradizione

Una simile impostazione, ad un tempo teoretica e pratica, mette subito in campo la natura inter-personale del processo educativo.

Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale[5].

Imprescindibile punto di partenza perché l’educando possa percorrere la strada dell’integralità dell’esperienza è la cura che le generazioni adulte si prendono delle nuove generazioni. Per me l’immagine più efficace di cosa sia questa cura della catena di generazioni, è l’immagine di Enea che lascia Troia distrutta con Anchise sulle spalle e il figlioletto Julo per mano. L’educazione vede all’opera la catena di generazioni.

Come giustamente è stato affermato, l’educazione domanda tradizione.

Essa consiste, come diceva Blondel, in un luogo di pratica e di esperienza[6], vissuto e proposto in prima persona dall’educatore alla libertà sempre storicamente situata dell’educando. Pertanto la tradizione rettamente intesa è per sua natura aperta a tutte le domande che incombono sul presente. È innovativa. Essa garantisce, come diceva Giovanni Paolo II, la “genealogia” della persona e non solo la sua “biologia”. Assicura la piena ed autentica esperienza di paternità-figliolanza, imprescindibile condizione per suscitare civiltà[7].

Si capisce allora il peso che nella proposta educativa ha il fattore dell’autorità, termine di cui è bene non dimenticare il significato etimologico più accreditato. Il sostantivo latino auctoritas deriva dal supino del verbo latino augere che significa “far crescere”. La persona autorevole, infatti, incarna quell’ipotesi esistenziale di lavoro, cioè quel criterio di sperimentazione dei valori che la tradizione mi offre; l’autorità, quando è autentica, è l’espressione efficace della trama di relazioni comunitarie in cui si origina la mia esistenza. In questo caso l’educando sente l’autorità come profondamente con-veniente alla sua persona.

c) Natura inter-personale dell’educazione: partecipazione e rischio

L’integralità dell’esperienza, nel rispetto della natura del reale, non è garantita solo dal fatto che l’educando sia chiamato al paragone con una proposta vivente e personale veicolata dalla tradizione – sempre innovativa – attraverso una figura autorevole. È necessario che l’educando si impegni personalmente con tale proposta.

È importante capire che in questo passaggio non è semplicemente in gioco un metodo educativo più adeguato, o più consono con le legittime aspirazioni di “autonomia” dei giovani. La portata dell’affermazione a questo proposito è molto più profonda. Si tratta di riconoscere la struttura ultima del rapporto tra l’io e la realtà. In forza di tale struttura, se la libertà dell’uomo non si mette in gioco, gli è negato l’accesso alla verità. Infatti, se la verità è l’evento in cui realtà ed io si incontrano e se tale evento si dà sempre e solo nel segno, non esiste, ultimamente, possibilità di conoscere il reale (verità) senza una decisione.

Afferma l’esegeta Schlier, in proposito: «Il senso ultimo e peculiare di un evento, e quindi l’evento stesso nella sua verità, si apre solo e sempre ad una esperienza che s’abbandoni ad esso e in questo abbandono cerchi d’interpretarlo» e aggiunge: «un evento si palesa a chi partecipa all’esperienza di esso».

Così l’inevitabile rischio dell’educazione apre l’educando alla massima creatività.

d) Il dia-logo educativo

In questo modo l’educazione si attua nel rapporto tra l’educatore e l’educando sempre situati in un contesto interpersonale comunitario. Si tratta di un dialogo tra libertà.

Martin Buber, che con Ebner e Rosenzweig è annoverato tra i cosiddetti maestri del pensiero dialogico, afferma che l’autentico dialogo è uno «scambio profondo con il reale inafferrabile»[8]. Il dialogo come ambito educativo costituisce sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone), il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). Scambio che è reso possibile dalla stessa realtà che per il suo carattere di segno non è mai meccanicamente afferrabile. Non esiste vero dialogo senza che si mettano in gioco la libertà dell’educatore e dell’educando nell’incessante paragone con il reale. Se mancasse uno solo di queste tre fattori, il trittico dell’educazione verrebbe inevitabilmente meno. Se manca la libertà, integralmente giocata, sia dell’educatore sia dell’educando, il dialogo diventa essenzialmente monologo; se manca l’immersione nella realtà è preclusa la strada all’esperienza.

A partire da questa concezione del dialogo educativo e del percorso fin qui sinteticamente compiuto è ora possibile ripensare il rapporto tra educazione e laicità. Dovrebbe infatti risultare più chiaro che l’equivalenza tra scuola laica e scuola neutra o non identitaria è inaccettabile. Semplicemente perché una tale scuola non può esistere, in forza della natura stessa del rapporto educativo. In altre parole, la scuola si struttura sempre all’interno di un riferimento valoriale, ultimamente riferito ad un quadro – o forse ad una cornice – di significato.

Un’educazione neutra è, di fatto, impraticabile. Infatti, se, come abbiamo mostrato, alla base di ogni educazione sta il concetto di relazione educativa, intesa come rapporto fra chi apprende e chi insegna (in genere, ma non sempre, un giovane e un adulto), in questa relazione, che fiorisce su una trama articolata di rapporti, il senso sta alla base di ogni possibilità di apprendimento[9].

4. Un sistema scolastico laico

Quali conseguenze derivano da una proposta come quella accennata in vista di un ripensamento del sistema scolastico italiano che possa essere espressione adeguata di una nuova laicità imprescindibile nell’odierna società plurale?

a) Due modelli

L’affermazione dell’impraticabilità della scuola neutra, non significa per me dare vita ad alcune battaglie ideologiche contro l’attuale sistema scolastico italiano. Semplificando possiamo dire che oggi, nel sistema scolastico italiano, esistono due modelli educativi.

* Pluralismo nella scuola unica di Stato

È un fatto che nella storia del nostro Paese è stata operata, almeno fino a poco tempo fa, una chiara scelta per una scuola unica e centralizzata. La tesi dei sostenitori della scuola unica di Stato si basa su questa convinzione: la scuola deve rispondere alla domanda di formazione di una comunità che si riconosce nello stesso universo culturale di valori, norme e comportamenti, e quindi condivide anche un’idea di educazione. Questo universo p
uò essere identificato, nella sua espressione minimale o massimale – a questo proposito ci sono delle notevoli divergenze – con il quadro costituzionale di una determinata democrazia.

Ovviamente coloro che sostengono la scuola unica di Stato conoscono bene il carattere plurale delle nostre società. E in forza di questo dato propongono nella scuola unica di Stato il modello del pluralismo di visioni che si confrontano. Si propugna il cosiddetto “pluralismo nella scuola” opposto al “pluralismo delle scuole”. Il pluralismo, allora, è sostanzialmente reso possibile grazie alla giustapposizione di posizioni diverse, ma considerate parimenti legittime. Il mix delle idee proposte è lasciato totalmente al caso: ammesso che esista una visione sintetica interpretativa della realtà, sarà l’alunno a doversela guadagnare al termine del processo educativo, essendosi confrontato con tutte le posizioni in campo. Così si immagina una sorta di miracolistico effetto per cui i contrasti si comporranno in una armoniosa unità, consentendo all’educando di sviluppare autonomia e senso critico. Questo però è il risultato che si auspica. Il dato che si può, invece, costatare è il conflitto reale che scaturisce tra le visioni a confronto[10].

Si tratta di un modello che io considero oltre che in sé sbagliato pedagogicamente inefficace.

E questo non in forza di una prevenzione ideologica, ma solo perché considero pedagogicamente inefficace, in ordine alla ricerca, all’insegnamento e allo studio dei saperi che esigono all’origine un principio interpretativo unificatore.

* Pluralismo delle scuole

Il secondo modello, quello generalmente praticato dalle scuole cattoliche (ma anche dalle scuole montessoriane, steineriane, e dal movimento delle free schools), che è teso a garantire, in una società sempre più differenziata, la possibilità di seguire una proposta educativa che riconosca ai soggetti dell’educazione (o alle loro famiglie, quando i diretti destinatari siano troppo giovani per esprimere una scelta) una coerenza che, tenendo conto dei valori irrinunciabili di cittadinanza sancita dalla Costituzione su cui si basa un paese, consenta un reale sviluppo della persona.

In queste scuole si fa una chiara proposta sintetica educativa interpretativa del reale e si invita lo studente a verificarla e a paragonarla a 360 gradi, secondo tutte le forme moderne oggi concepite e concepibili, pienamente consapevoli del contesto di società plurale in cui il sistema scolastico è inserito.

Siccome i ragazzi sono chiamati da mille agenti educativi (pensate alla televisione, a Internet, ecc…) ad un continuo confronto tra diverse Weltanschauungen, tra diverse visioni di vita, in questa scelta da parte delle scuole non c’è nessun rischio di chiusura, tantomeno vi è la preoccupazione di creare un bel recinto in cui custodire il ragazzo. C’è invece la convinzione pedagogica che davanti ad una chiara proposta interpretativa sintetica del reale si educa meglio. Si studia e si impara meglio. A questo proposito il filone di ricerca sul successo scolastico riscontra la benefica influenza sull’apprendimento di un clima scolastico unitario e di un impostazione condivisa[11].

Questo modello scolastico promuove, inoltre, la vitalità della società civile. Infatti consente di uscire da una situazione che è vessatoria per molte famiglie, dal momento che «la combinazione fra l’obbligo di frequenza, la struttura burocratica, e un apparato abnorme si sostituisce alla scelta delle famiglie… tutte le famiglie possono scegliere il cibo, i vestiti e la casa mentre quando si tratta di lealtà, intelletto, valori fondamentali – in una parola quando è coinvolta l’umanità dell’educando – lo stato domina le ore fondamentali del suo tempo»[12], mentre il principio di sussidiarietà prevede che il processo educativo tenga sempre conto della voce dell’educando, espressa all’interno di una comunità decisionale che lo conosce e si prende cura di lui – normalmente la famiglia – con il contributo dei professionisti che hanno la responsabilità di comunicargli i speri all’interno di un preciso progetto educativo. Nelle scuole scelte dalla famiglia, il pregio principale, oltre alla libertà stessa, è che l’educando nella scuola si sente “a casa”, e quindi sviluppa empatia e impegno morale, consolidando un’identità capace di confrontarsi, e non, come temono alcuni, in contrasto con la sicurezza delle istituzioni, o isolando l’educando dal resto del mondo.

Questo è, dunque, l’altro modello presente nella nostra società.

b) L’odierno contesto culturale

Inoltre questi due modelli sono oggi chiamati a confrontarsi direttamente con un contesto culturale fortemente caratterizzato dal processo in atto – sottolineo la parola processo – che, in altri sedi, ho descritto con l’espressione meticciato di civiltà e di culture.

È necessario riconoscere che l’elevata coincidenza fra il sistema di valori e significati propri degli studenti e dei docenti, che per decenni ha caratterizzato la scuola unica di Stato in Italia, oggi è drasticamente messa in discussione. Infatti questa coincidenza è diminuita nel tempo, prima per il crescere della disparità ideologica fra genitori e insegnanti, ma anche fra genitori e genitori e fra insegnanti e insegnanti, con un processo che può essere definito come di “caduta dell’illusione dell’uniformità”, e poi – in modo più massiccio – per l’affluenza nella scuola di quote rilevanti di ragazzi stranieri di cui solo una minoranza provengono da paesi culturalmente vicini all’Italia.

I dati cambiano con grande rapidità, ho potuto prendere visione di quelli che il Ministero della Pubblica Istruzione ha fornito nello scorso mese di novembre in riferimento all’anno scolastico 2006/2007.

Nel 2006/2007 erano presenti nella scuola italiana più di mezzo milione di ragazzi con cittadinanza straniera, di cui il 25% concentrato in quattro città (Milano, Roma, Torino e Brescia) pari al 5,6%, per lo più nella scuola primaria (38.0% del totale degli stranieri), ma anche nella scuola secondaria di primo grado (22,5%) e nella secondaria (20,5%). I comuni in cui gli studenti stranieri sono più del 15% erano 17 nel 2004-2005, 33 nel 2005-2006 e 51 nel 2006-2007. Le scuole in cui i ragazzi stranieri sono più del 20% sono quasi novecento, e in 89 di esse gli studenti stranieri superano il 40%; in 216 di queste scuole sono presenti ragazzi di più di venti diversi paesi. Di questi ragazzi, il 42,6% sono in parti quasi uguali albanesi, rumeni e marocchini, tutti in ampia crescita[13].

Questi dati servono esclusivamente ad indicare una situazione così complessa (e la cui complessità è destinata a crescere rapidamente) che non è possibile immaginare una scuola unica e uniforme in grado al tempo stesso di trasmettere i valori della società di arrivo, e di rispettare quelli della società di partenza.

Mi preme però sottolineare che limitare ai ragazzi stranieri il problema della rispondenza della scuola alla domanda di educazione è fuorviante: chiaramente in riferimento ad essi è più evidente il problema della conciliazione fra diritti della persona e doveri del cittadino, ma questo tema vale per qualsiasi persona e qualsiasi cittadino italiano.

c) Il compito dello Stato

In una società veramente laica, il compito dello Stato, per quanto riguarda il
sistema scolastico, non è quello di difendere un preteso diritto ad essere l’unico gestore della scuola – scegliendo in questo modo il modello di pluralismo nella scuola unica di Stato -, ma quello di garantire l’educazione[14], esercitando innanzitutto un’azione di sostegno dei più deboli.

Così quando parliamo di libertà di educazione chiediamo che i due modelli possano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, né più né meno. Non ci interessa fare la battaglia ideologica su quale sia il modello più giusto, anche se non ci manca un’opinione in proposito. Vogliamo stare all’interno di un sistema scolastico che conceda ad entrambi i modelli parità di condizioni giuridiche ed economiche – senza parità economica non c’è di fatto reale parità – a parità di verifica da parte degli organi statuali competenti.

Mi sembra che la strada sia quella del coraggio di applicare fino in fondo il principio delle libertà realizzate sempre più invocato in tutti i settori delle democrazie laiche e plurali odierne. Lo Stato deve rinunciare in linea di massima a farsi attore propositivo diretto di progetti scolastici per lasciare questo compito alla società civile. Deve impegnarsi invece a garantire, attraverso opportune forme di accreditamento, le condizioni oggettive di rispetto della Costituzione, soprattutto l’equità nel diritto all’accesso e alla riuscita e la qualità delle proposte formulate. Lo Stato deve passare dalla gestione al puro governo del sistema scolastico. È necessario però affermare in pari tempo che le scuole libere, promosse da liberi attori in forza del principio di sussidiarietà, dovranno attuare anche il principio di solidarietà per garantire l’effettivo e qualificato accesso di tutti soprattutto all’istruzione gratuita obbligatoria. Le scuole libere debbono essere scuole di tutti e per tutti. E gli organi statali saranno chiamati, attraverso il processo di accreditamento, a rigorose verifiche.

Concretamente questa proposta significa non espellere le famiglie dall’educazione, ma fornire loro più mezzi (informazione, sostegno economico…). Nel momento in cui ai genitori viene impedito di scegliere, il controllo dell’educazione passa di fatto in mano agli insegnanti e ai burocrati, detentori delle competenze tecniche, che tendono ad abbattere e non a potenziare la partecipazione, e tendono a difendere lo status quo»[15].

5. Un ambito di lavoro comune

La proposta di un sistema scolastico veramente laico che renda possibile nei fatti la coesistenza di questi due modelli, lungi dall’essere un campo di battaglia nel quale opporsi accanitamente, può diventare un’occasione preziosa per un lavoro comune da parte dei diversi soggetti all’opera nella società plurale.

E lo può diventare proprio a partire dal riconoscimento del protagonismo della società civile e del ruolo necessario dello Stato.

Le diverse ermeneutiche presenti nella società civile possono concorrere a dar risposta a due domande fondamentali.

In primo luogo occorre interrogarsi su come e dove si costituisce una solidarietà capace di dare vita a un progetto educativo. E questo mette in campo il dinamismo della società plurale sul quale non possiamo qui soffermarci[16].

In secondo luogo si tratterà di garantire che i progetti educativi dialoghino tra loro e rispettino un codice comune. Per quanto riguarda la diffusione delle virtù di cittadinanza, è vero che «una società stabile e democratica è impossibile senza un grado minimale di istruzione, e senza la conoscenza e la diffusa accettazione da parte dei cittadini di un insieme di valori comuni. L’educazione può contribuire ad entrambi»[17]. In questo ambito lo Stato democratico deve realizzare un equilibrio tra il ruolo di unificatore e quello di garante della diversità delle tradizioni, nei confini di una comune cultura, senza temere il dato inevitabile che nella scuola il “meglio” per una nazione o un gruppo può non esserlo affatto per un altro.

In questo ambito è nell’interesse della società e delle singole persone che le tradizioni religiose e culturali vengano mantenute: lo Stato non deve incoraggiare o scoraggiare queste identità, ma solo accertare che non siano in contrasto con i principi su cui si fonda. È giusto che lo Stato si preoccupi di evitare che le scuole finanziate con denaro pubblico attuino delle forme di discriminazione religiosa o razziale, ma non può farlo imponendo «una cultura unica, secolarizzata, di basso profilo valoriale e dottrinale praticamente a tutti, tranne a quelli che possono pagarsene una diversa»[18].

La capacità della società “laica” di assumere questi compiti eserciterà, assai più che le (mancate) riforme di sistema, un importante influsso sulla qualità della scuola, ma soprattutto sulla qualità dell’esperienza umana che consente.

Siamo ben coscienti che la nostra proposta implica tempi medio-lunghi, anche se ormai è improcrastinabile la necessità di compiere subito dei passi. La parità scolastica integralmente assunta e la pista dell’autonomia di cui per ora esiste solo il tracciato, se portate con coraggio fino in fondo, possono rappresentare una strada percorribile al fine di condurre al traguardo di una autentica libertà di educazione nel nostro paese.

Conclusione

Il grado di civiltà di una società si giudica soprattutto a partire dal peso e dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle Istituzioni che sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo. In quest’ottica il diritto all’educazione deve essere riconosciuto a tutti i soggetti in grado di realizzare intraprese scolastiche veramente pubbliche, cioè al servizio di tutti.

Di questo, ben due secoli fa, i fratelli Cavanis sono stati profeticamente consapevoli. Per questo hanno lottato strenuamente e si sono spesi infaticabilmente fino al termine della loro vita. Tutte le opere fiorite dal loro carisma – dal germe iniziale della Congregazione mariana del 1802, in cui sono già ben riconoscibili i tratti fondamentali del loro metodo educativo, fino all’antico e robusto albero di questo Collegio Canova, rigoglioso di frutti, o alle più recenti fondazioni in America Latina o nelle Filippine – documentano la straordinaria con-venienza della loro proposta educativa con il cuore dell’uomo di ogni tempo e a tutte le latitudini.

[1] P. Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in C. Vigna – S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, 55-56.

[2] Cfr. J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, La Scuola, Brescia 2001, 86.

[3] Ibid., 87.

[4] Cfr. L. Giussani,
Il rischio educativo, SEI, Torino, 1995, 19.

[5] Cfr. A. Scola, Ospitare il reale, PUL-Mursia, Roma 1999.

[6] Cfr. M. Blondel, Storia e dogma, Queriniana, Brescia 1992, 103-137.

[7]Cfr. A. Scola, Genealogia della persona del figlio, in Pontificio Consiglio per la Famiglia, I figli: famiglia e società nel nuovo millennio. Atti del Congresso Teologico-Pastorale Città del Vaticano 11-13 ottobre 2000, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, 95-104.

[8] M. Buber, Dialogo, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 206.

[9] La capacità descritta da Mead di identificare l’altro significativo rispetto all’altro generico segna nel bambino il passaggio dall’imitazione all’identificazione, primo passo nella costruzione dell’identità: G. H. Mead, Mente, sé, società, Giunti e Barnera, Firenze, 1972

[10] A parte il fatto che in una scuola esiste quantomeno una “cultura” del dirigente e una cultura degli insegnanti (e non è detto che coincidano), il fatto che gli insegnanti la pensino in modo diverso non ha affatto conseguenze positive. Holmes riscontra l’esistenza di almeno sei idealtipi di docenti – progressista, tecnocratico, culturale, tradizionale, individualista e ugualitario – tra cui il conflitto è reale e constatabile: M. Holmes, Educational policy for the pluralist democracy: the common school, choice and diversity, The Falmer Press, London 1992.

[11] A questo proposito Bryk ha parlato del Catholic school effect a partire dalla costatazione del fatto che l’esistenza di un forte modello unitario giova particolarmente ai ragazzi più svantaggiati, segnatamente gli afro americani, per lo più non cattolici: A. S. Bryk – V. E. Lee – P. B. Holland, Catholic schools and the common good, Harvard University Press, Cambridge 1993. Molto più recentemente, Morris, in un’indagine a Birmingham, riscontra che le scuole cattoliche sono particolarmente efficaci per gli studenti socialmente più svantaggiati, e proprio per questo portano un rilevante contributo al bene comune: cfr. A. B. Morris, Diversity, deprivation and the common good: pupil attainment in Catholic schools in England, in «Oxford Review of Education» 31 (2005) n. 2, 311-330.

[12] J. E. Coons – S. D. Sugarman, Education by choic: the case for family control, University of California Press, Berkeley 1978, 27.

[13] Ministero della Pubblica Istruzione, Alunni con cittadinanza non italiana, a.s. 2006/2007, Roma, novembre 2007.

[14] Quando si parla di responsabilità educative dello Stato si intendono almeno tre cose diverse: il suo potere di fissare i percorsi formativi e i curricoli; il suo potere di possedere e gestire scuole; e infine il suo potere di indirizzare gli alunni a scuole specifiche. Discutere il problema della scelta in relazione all’uno o all’altro di questi tre punti comporta ovviamente conseguenze diverse.

[15] M. Lieberman, Privatisation and educational choice, McMillan, London 1989, 21.

[16] Cfr. A. Scola, Una nuova laicità. Temi per la società plurale, Marsilio, Venezia 2007.

[17] M. Friedman, Capitalism and freedom, University of Chicago Press, Chicago 1962, 86. Trad. it.: Capitalismo e libertà, Studio Tesi, Pordenone 1967.

[18] Holmes, op. cit., 83.

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ZENIT Staff

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