Il "caso serio" dell'omelia (Quinta ed ultima parte)

“Relativizzazione” dell’omelia

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di monsignor Enrico Dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense

ROMA, sabato, 21 luglio 2012 (ZENIT.org).

5. “Relativizzazione” dell’omelia

Le considerazioni svolte fin qui aiutano anche a “relativizzare”, in senso positivo, l’omelia. E’ proprio vero che la migliore catechesi sull’Eucaristia, e anche la migliore omelia, è la stessa Eucaristia ben celebrata.

Vale a dire che l’omelia non va considerata da sola, in assoluto. Essa è situata in un contesto liturgico, che ne determina la validità.

* Anzitutto, ciò che relativizza positivamente l’impegno dell’omileta è il fatto che in ultima istanza chi parla veramente al cuore dell’uomo è solo Dio. Ancora di più: secondo i nostri Padri, Dio stesso apre il suo cuore a coloro che ascoltano la Parola: “Disce cor Dei in verbis Dei”, non si stancava di ripetere Gregorio Magno.

Da parte sua, il predicatore cercherà di assicurare le condizioni migliori perché questo incontro tra il cuore di Dio e il cuore dell’uomo si realizzi efficacemente.

* Un altro contesto che condiziona e relativizza l’omelia è la vita stessa del predicatore. Di questo abbiamo già fatto qualche cenno, ma conviene sottolinearlo ancora, a partire dalla definizione stessa di Padre della Chiesa: “Padre”, secondo la Tradizione della Chiesa, non è semplicemente uno che parla e che scrive bene. Il Padre è un santo. Se non è santo, non è un Padre. L’efficacia della parola è intimamente legata alla testimonianza della vita.

E’ ben noto che il magistero di Paolo VI e di Giovanni Paolo II ha elaborato, si può dire, una vera e propria “teologia della testimonianza”, a partire dalla celeberrima affermazione dell’Evangelii Nuntiandi, secondo cui il mondo d’oggi ha più bisogno di “testimoni” che di “dottori”.

In qualche misura, dunque, è la vita stessa del ministro che dà validità alla sua predica. Questa affermazione non va esagerata, perché altrimenti dovremmo rimanere tutti zitti. In ogni caso, la figura dell’omileta deve essere una figura compatta e forte nella testimonianza: una persona in cui le parole sono intercambiabili con i fatti.

Viene alla mente la testimonianza di Gandhi. Sir Stanley Jones gli si accostò, chiedendogli di rilasciare un messaggio per il mondo. Il Mahatma lo guardò, e gli rispose turbato: “Io non ho una parola da dire; la mia vita è il mio messaggio…”.

Ebbene, per noi le cose vanno ben diversamente.

Noi l’abbiamo la Parola: noi abbiamo il lieto messaggio di Cristo, noi abbiamo il Credo degli apostoli e della Chiesa, noi abbiamo la fede da trasmettere. Ma questo Vangelo non può passare senza la testimonianza della vita: eritis mihi testes.

* Infine, l’omelia è situata nella vita della comunità cristiana – normalmente della parrocchia – in cui si celebra. L’efficacia dell’omelia dipende anche dalla testimonianza di questa comunità cristiana, dal suo impegno nella vita ecclesiale, dalla sua partecipazione nella fede, nella speranza e nella carità.

Da questo punto di vista è significativa una testimonianza delle Confessioni di sant’Agostino. Ciò che cominciò a muovere il cuore del giovane retore africano, scettico e disperato, e che lo spinse alla conversione prima, e poi al battesimo, non furono le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) del vescovo Ambrogio, ma fu piuttosto la testimonianza della Chiesa milanese che pregava e cantava, compatta come un solo corpo; una Chiesa capace di resistere alla prepotenza dell’imperatore Valentiniano e di sua madre Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di una chiesa per le cerimonie degli ariani. Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, “il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. Anche noi”, e questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, “pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo” (Confessioni 9,7).

Di qui si comprende anche quanto possano incidere negativamente su ciò che diciamo le “controtestimonianze” personali e comunitarie; di qui l’importanza che Giovanni Paolo II attribuiva al saper chiedere perdono come comunità, come Chiesa; l’importanza di educare le nostre assemblee alle liturgie della penitenza e della riconciliazione.

6. Per non concludere…

L’omelia è veramente una sfida e una responsabilità, forse oggi più di ieri.

Ho tentato di condividere alcune riflessioni e qualche suggerimento, dettati dal riferimento ai Padri, dall’esperienza personale e da vari studi e letture.

A quest’ultimo riguardo, degli studi e delle letture, raccomando uno strumento prezioso e facilmente accessibile. Si tratta del Dizionario di Omiletica curato da Manlio Sodi e da Achille M. Triacca per le Editrici Elle Di Ci e Velar, Leumann – Gorle 2002, con bibliografia praticamente esaustiva a corredo dei singoli lemmi. A parte la voce complessiva Predicazione (nella Chiesa antica), scritta dal benedettino dom Alexandre Olivar, vi compare una vera e propria “galleria” di Padri, autentici modelli di predicazione nell’“oggi” della Chiesa.

Stando al loro magistero, il “caso serio” dell’omelia si colloca più sul versante della testimonianza di vita (ecco l’impegno penitenziale, di conversione) che non su quello della metodologia e delle tecniche (senza ovviamente sottovalutare questo secondo versante).

Può servire anche per il predicatore ciò che l’allora don Joseph Ratzinger scriveva in Introduzione al cristianesimo a proposito del teologo. Il predicatore non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte “per mestiere”. Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene – egli deve essere come il discepolo innamorato, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro, e da lì ricava il suo modo di pensare, di parlare e di agire.

Alla fine di tutto, il discepolo innamorato è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.

(La quarta puntata è stata pubblicata venerdì 20 luglio)

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ZENIT Staff

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