L’accoglienza dello straniero? Non un compito, ma “un modo di vivere”

Spiega il segretario del dicastero per i Migranti e gli Itineranti

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COLONIA, venerdì, 28 novembre 2008 (ZENIT.org).- L’accoglienza dello straniero “non è tanto un compito quanto un modo di vivere e di condividere”, ha sottolineato l’Arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo alla Riunione della Commissione per le Migrazioni della Conferenza Episcopale Tedesca, in svolgimento a Colonia (Germania) questa settimana.

“Come Chiesa, in che modo possiamo essere effettivamente presenti, con una pastorale adeguata e specifica, tra migranti, rifugiati, sfollati, studenti internazionali, e quanti vivono e subiscono i condizionamenti che derivano dalle molteplici esperienze della mobilità umana?”, ha chiesto.

“Come può questa presenza essere anche evangelizzatrice e missionaria? Come può risultare legata alla promozione umana e allo sviluppo integrale, tanto necessari e urgenti?”.

Il primo “nuovo itinerario pastorale all’alba del Terzo Millennio”, ha osservato, è proprio l’“accoglienza ecclesiale ed eventuale integrazione nella Chiesa locale”.

L’accoglienza, ha osservato il presule, “è caratteristica fondamentale del ministero pastorale fra i rifugiati e i profughi all’interno del proprio Paese” perché “garantisce che ci rivolgiamo all’altro come a una persona e, eventualmente, quale fratello o sorella nella fede”, il che “impedisce di considerarlo come caso, o fonte di lavoro”.

“Una comunità ecclesiale accogliente verso i forestieri è un ‘segno di contraddizione’, un luogo dove gioia e dolore, lacrime e pace sono strettamente interconnessi”, ha sottolineato, osservando che “ciò è particolarmente incisivo in quelle società che si dimostrano ostili verso coloro che vengono così accolti”.

“Speranza, coraggio, amore e creatività: ecco cosa bisogna offrire a queste persone per consentire loro di rifarsi una vita”.

Allo stesso modo, “un’effettiva presenza pastorale della Chiesa tra i migranti, i rifugiati e gli itineranti dipende, in generale, dalla formazione di sacerdoti e di altri operatori pastorali nel campo della mobilità umana, da un’adeguata organizzazione pastorale (‘solidarietà pastorale organica’) e dalla cooperazione interecclesiale a livello diocesano, nazionale, regionale, continentale e universale, come espressione e realizzazione della summenzionata solidarietà”.

Per questo, accanto alla formazione è necessaria la creazione di appropriate strutture nazionali e diocesane, in particolare di Commissioni per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, che hanno il compito di “promuovere in maniera specifica l’accoglienza dello straniero, per essere Chiesa-Famiglia con coloro che hanno subito e subiscono ancora il trauma e la croce dell’esilio o che sono stranieri in terra straniera”.

Quanto alla cooperazione pastorale tra parrocchie, diocesi, Conferenze episcopali, strutture regionali, continentali e universali di comunione ecclesiale, al giorno d’oggi per il presule è imprescindibile, perché, visto che migranti e rifugiati “superano i confini ecclesiastici e nazionali”, “la risposta della Chiesa comporta necessariamente uguali dimensioni”.

Importante, ha proseguito l’Arcivescovo, è poi il rapporto tra Chiesa di partenza e Chiesa d’arrivo, dove quest’ultima deve adoperarsi perché gli stranieri trovino “un atteggiamento di empatia che sostenga la loro fede e la loro fiducia in Dio” e li aiuti a “trovare sollievo” da esperienze quali “la discriminazione o il fatto di essere emarginati per mancanza di lavoro o attività criminali”.

“La sicurezza che deriva dalla consapevolezza di fare anch’essi parte di questa famiglia permette ai migranti di integrarvisi e portarvi il loro contributo”.

Se i migranti appartengono ad altre Chiese o comunità ecclesiali cristiane o sono seguaci di altre religioni, ha osservato il segretario del dicastero vaticano, “il fatto di accoglierli fornisce l’opportunità di stabilire quel dialogo di vita che è un aspetto chiave dell’ecumenismo e delle relazioni interreligiose”.

Circa la Chiesa di partenza, sono necessari “una particolare attenzione pastorale e programmi specifici” relativi alla famiglia, colpita dalle migrazioni soprattutto quando queste separano i coniugi e aumentano il fardello delle donne capofamiglia.

Per una vera integrazione dei migranti, ha concluso l’Arcivescovo, questi devono poi “diventare visibili nelle parrocchie, sia territoriali che personali, nelle ‘missiones cum cura animarum‘, nelle organizzazioni caritative, nei movimenti ecclesiali, nelle nuove comunità e nelle congregazioni religiose”.

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ZENIT Staff

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