di Salvatore Cernuzio
ROMA, venerdì, 9 novembre 2012 (ZENIT.org) – Con una solenne cerimonia si è aperto questa mattina l’Anno Accademico della Pontificia Università Lateranense. Un anno speciale per “l’università del Papa” che celebra il 240° anniversario della sua fondazione, intitolandolo Anno della comunicazione della Fede, dedicato a Benedetto XVI.
Una scelta questa, che identifica l’obiettivo fondamentale dell’Ateneo per il 2012-2013, ha spiegato il rettore mons. Enrico dal Covolo: “riflettere sul legame strettissimo tra educazione e comunicazione, e come esso influisce negativamente o positivamente sulla formazione della persona”.
Per inaugurare tale proposito, è stato scelto il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, che ha tenuto una lectio magistralis sul tema “Educazione e comunicazione. Come crescere nella Fede in Università”.
Il porporato è stato, inoltre, doppiamente protagonista dell’evento, ricevendo nel corso della mattinata il dottorato honoris causa in Teologia, per il suo impegno pastorale orientato alla comunicazione della fede.
È questo “un atto formale della vita accademica dell’Università” ha spiegato nella sua Laudatio il decano della Facoltà di Teologia, Nicola Ciola. Tuttavia nel caso di Ravasi, ha precisato, “va al di là di una pura convenzionalità: sia per l’eminenza della persona, sia per la qualità della sua produzione bibliografica e dell’impatto che i suoi interventi hanno sulla Chiesa e sulla società”.
Visibilmente emozionato, il cardinale Ravasi ha ringraziato i numerosi ospiti presenti con le parole del beato cardinale John Henry Newman: “Salute pace e benedizione agli amici che senza essere stati attesi e sperati sono venuti”. Iniziando la sua Lectio, si è poi soffermato sul significato delle due parole Educazione – Comunicazione, “un dittico che suppone infiniti percorsi di trattazione”.
Educazione, ha spiegato Ravasi, “è una parola che ha avuto due binari di analisi”. Da un lato il metodo: il principio che “educare è prima di tutto esporre”. Dall’altro il contenuto: “con la Repubblica di Platone l’accento si sposta sui contenuti, ed educare diventa quindi dare amore per la sapienza”.
Metodo e contenuto sono “inestricabili” ha affermato il porporato, “con il metodo avviene un mutamento totale del contenuto”. Ne sono un esempio i moderni strumenti di comunicazione, vere “protesi dei sensi”, per dirla alla Mc Luhan, che non hanno portato solo ad una “estensione di noi stessi, ma alla nascita di un nuovo ed inedito modello antropologico”.
Pensiamo a Galileo che inventando il telescopio “credeva di estendere solo le capacità visive, ma alla fine diede vita ad una rivoluzione epistemologica e antropologica per cui l’uomo non era più al centro dell’universo”. Oppure ai giovani “che trascorrono circa 4-5 ore a chattare davanti al Pc”, modificando “l’umanità nella sua relazione fondamentale”.
“Educazione e comunicazione si devono intrecciare” ha affermato quindi il presidente del Dicastero per la Cultura, altrimenti si rischia la “degenerazione” già presagita da Montaigne: che l’educazione diventi solo un “inzeppare” la testa di dati e nozioni, “ignorando la capacità di giudizio e virtù”.
Parlando, invece, di Comunicazione nell’orizzonte teologico della fede, il cardinale ha proposto tre paradigmi che mostrano come, “all’interno delle Sacre Scritture, la comunicazione sia decisiva per credere”.
Il primo modello è il paradigma tradizionale, “caratteristico di ogni trasmissione di sapere perché l’umanità non è mai stata capace di nudità o di tabula rasa quando procede nel conoscere” ha spiegato Ravasi. Questo paradigma – ha aggiunto – “è inevitabile nell’insegnamento, nell’università, nella famiglia”, in quanto la trasmissione del sapere si innesta nella catena della tradizione.
Il secondo passo è quindi l’attualizzazione: la necessità, cioè, di incarnare tale eredità ricevuta; di “inserire il depositum fidei nella finitudine delle parole e dei pensieri” in modo da renderlo “ininterrottamente efficace”. L’ultimo, invece, è quello definito dal cardinale simbolico, tipico del linguaggio delle religioni e della nostra civiltà delle immagini, che presume una “capacità di comunicazione autentica e incisiva”.
“L’esempio principale di comunicazione simbolica è Gesù Cristo con le sue parabole” ha detto il porporato. “I Suoi aforismi hanno densità nel contenuto e capacità di trasformare chi ascolta. Basti pensare al primo kérygma nel Vangelo di Marco, dove Gesù usa soltanto 78 caratteri greci, quasi la metà di un tweet che è di 140”.
Per suggellare il discorso su educazione e comunicazione, il Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura ha infine introdotto un appello “fuori tema”: l’elogio del silenzio. “Nella chiacchiera dilagante nella nostra epoca – ha detto Ravasi – in un effluvio di parole malate, il silenzio è l’esperienza ultima ed intima di cui abbiamo bisogno”.
Interrogato da ZENIT, al termine dell’evento, sul significato di questo silenzio, il cardinale ha risposto: “Il silenzio è il linguaggio ultimo. È come quando una persona si trova davanti ad un paesaggio mirabile e dice ‘sono senza parole’. Questo non è assolutamente il vuoto, anzi è il momento maggiore della felicità, dell’estetica. Allo stesso modo con la Fede: dopo aver ascoltato, letto, se quelle parole sono entrate dentro, artigliando la coscienza, in quel momento si avvera il silenzio della contemplazione”.