di Maurizio Moscone
ROMA, sabato, 17 novembre 2012 (ZENIT.org).- La Chiesa ha sempre manifestato molto interesse per il pensiero e l’opera di Dante Alighieri.
In particolare, Benedetto XV dedicò una enciclica, In praeclara summorunm (1921), nella ricorrenza della nascita del poeta.
Paolo VI era affascinato dalla bellezza lirica e dalla profondità teologica della poesia dantesca, tanto da manifestare il proprio amore per il poeta fiorentino in una lettera apostolica, Altissimi cantus, pubblicata nel 1965, il giorno prima della chiusura del Concilio Vaticano II.
In essa il Papa dichiara che la Chiesa cattolica annovera Dante “fra gli uomini illustri adorni di valore e di sapienza, inventori di melodie musicali, amanti del bello” e afferma che il suo essere cattolico è testimoniato dal suo amore a Cristo, alla Chiesa e al Papa.
Così si esprime Paolo VI: “Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica, perché tutto spira amore a Cristo; nostro, perché amò molto la Chiesa, di cui cantò gli onori; nostro, perché riconobbe e venerò nel Romano Pontefice il Vicario di Cristo in terra”.
Dante viene apprezzato come “padre della lingua viva” degli Italiani, ma anche, e soprattutto, come filosofo, teologo e poeta.
Il Papa sottolinea che la sua filosofia si ispira a Aristotele, Platone, Sant’Agostino, e la sua teologia segue fedelmente gli insegnamenti di san Tommaso d’Aquino.
Paolo VI riconosce a Dante il titolo di poeta, “signore dell’altissimo canto”, e quello di teologo, “teologo dalla mente sublime”, smentendo così implicitamente la tesi espressa da Croce che, nella Poesia di Dante (1921), considerava la Divina Commedia un romanzo teologico e non un’opera poetica, a causa delle trattazioni teologiche in essa presenti.
Secondo il Pontefice, Dante è il poeta-teologo, il cui poema, la Divina Commedia, è “il monumento più rappresentativo del Medioevo […] universale: nella sua immensa larghezza [perché] abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta alla divina Rivelazione e quella attinta dal lume della ragione […]”.
Paolo VI si sofferma molto ad analizzare l’umanesimo espresso dal poeta nella Divina Commedia, e evidenzia il carattere “ottimistico” di tale umanesimo, perché, sulla scia dell’insegnamento di san Tommaso, viene affermato che “la grazia non distrugge la natura, ma la risana e la perfeziona, e che persona est nomen dignitatis”.
Il Papa sottolinea il carattere cristiano dell’umanesimo dantesco, a differenza di quello rinascimentale “che valutava i beni umani indipendentemente da Dio e […] si volgeva alle istituzioni e ai costumi pagani […]”, riaffermando implicitamente la tesi di Maritain (di cui era un estimatore) secondo cui l’umanesimo medioevale e cristiano è “teocentrico”, a differenza di quello rinascimentale, che invece è “antropocentrico”.
Secondo Paolo VI tutta la Divina Commedia è pervasa dall’amore di Dante per l’uomo e dal desiderio della sua salvezza eterna, perché ”il fine della Divina Commedia è anzitutto pratico ed è volto a trasformare e a convertire. Essa in realtà non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma soprattutto di cambiare radicalmente l’uomo e di condurlo dal disordine alla sapienza, dal peccato alla santità, dalle sofferenze alla felicità, dalla considerazione terrificante dei luoghi infernali alle beatitudini del Paradiso”.
Dante ci ricorda che “passa la scena di questo mondo” e dopo la morte ogni uomo sarà giudicato e sperimenterà la realtà ultra terrena: Paradiso, Purgatorio, Inferno.