Sono lieta di essere intervenuta alla presentazione del libro Il vangelo della famiglia nel dibattito sinodale oltre la proposta del Cardinal Kasper,scritto dai professori Juan José Pérez-Soba e Stephan Kampowski, che potrà dare un contributo significativo in ambito pastorale nella comprensione di un problema – quello dell’indissolubilità del matrimonio e della comunione ai divorziati risposati – che sta creando grande confusione nella società civile.
E tuttavia, poiché ho già avuto l’opportunità di spiegare in un precedente contributo le ragioni della filosofia del diritto – per cui sono convinta che la proposta del cardinal Walter Kasper potrebbe creare delle contraddizioni tra misericordia e verità, così come tra coscienza soggettiva e bene comune – desidero dedicare questi pochi minuti a riflettere su alcuni semplici, ma importanti aspetti della sacralità del matrimonio, che emergono in maniera molto chiara dalle pagine di questo libro e trovano piena corrispondenza nella mia esperienza personale di moglie e di madre di una famiglia numerosa.
Sono sposata da quasi diciotto anni e di difficoltà mio marito ed io ne abbiamo superate tante, e alcune sicuramente non le abbiamo ancora superate. Ma è giusto che sia così, se il matrimonio è davvero una vocazione, una chiamata esistenziale, un modo tutto particolare di imparare ad amare donandosi in maniera esclusiva e totalizzante ad una persona.
In questo senso, essere sposati vuol dire lavorare ogni giorno per imparare a donarsi meglio all’altro, nella crescente consapevolezza che “è bene che l’altro ci sia”, che egli è un bene per me. E di una cosa ho imparato ad essere sicura, e cioè che anche nel matrimonio “chi perderà la propria vita, la troverà”. La promessa del matrimonio cristiano è davvero questa: che troveremo la vita, che troviamo la vita ogni giorno, uno accanto all’altro, qui e ora, e che questa è la santità del matrimonio.
Eppure mi chiedo se davvero oggi noi coppie che cerchiamo di vivere nella Chiesa crediamo nel “per sempre” del matrimonio. Nell’esclusività dell’unione, nel matrimonio come vocazione, come chiamata personale di Dio a ciascuno di noi a percorrere un cammino che ogni giorno, e non solo alla fine, ci deve ricondurre a Lui.
Le riflessioni più importanti che sono sorte in me su questo tema sono nate da una domanda che i miei due figli più grandi mi hanno entrambi rivolto intorno ai sette-otto anni. Inseriti in scuole cattoliche dove più o meno il 60% dei compagni erano figli di genitori separati, divorziati, risposati, o conviventi dopo precedenti unioni da cui erano nati questi bambini, i miei figli – giustamente – mi hanno chiesto: “Ma se gli altri genitori si separano e abbandonano i propri figli, anche tu e papà un giorno potreste farlo?”. Ma la domanda successiva era la più importante: “E come faccio ad essere sicuro che non lo farete?”
È stato in quelle occasioni che ho capito e ho sentito dentro di me la forza straordinaria del sacramento del matrimonio e la potenza della sua Grazia: nel momento cioè in cui ho potuto spiegare ai miei bambini che la promessa che ci eravamo fatti io e papà nel giorno del nostro matrimonio non era solo una promessa reciproca, ma una promessa a Dio (e con Dio non si scherza!)
È per un disegno di Dio che un giorno ci siamo non solo incontrati, ma riconosciuti come destinatari di un Progetto comune: quello di camminare insieme e cercare di costruire una famiglia, nella speranza che un giorno anche i nostri figli potessero andare nel mondo e magari costruire a loro volta una famiglia, “e portare molto frutto”. È Dio che ha benedetto la nostra unione ed è Lui a darci la forza della Grazia ogni giorno, aiutandoci a superare le nostre difficoltà e i nostri limiti.
Tante volte – soprattutto dopo un litigio, una discussione, una delusione – ho sentito subito dopo la tenerezza di essere accanto a quest’uomo così diverso da me e, non so perché, ma ogni volta ringrazio Dio di questo dono, di averlo incontrato e di esserne consapevole. È questa la Grazia del sacramento. E come spiegano gli Autori di questo volume – essa non dipende affatto da me. Né dalla mia percezione, per cui se non la percepissi vorrebbe dire che non c’è. Essa appartiene ontologicamente all’unione tra me e mio marito, c’è e ci sarà sempre, anche se in tanti momenti non la sentiamo perché siamo esausti, delusi, arrabbiati, perché siamo chiusi nel nostro orgoglio e induriamo il nostro cuore e la nostra intelligenza emotiva.
Ma la Grazia è più forte della nostra debolezza, e se proviamo a svuotarci del rumore assordante delle nostre ragioni – quelle che ci portano continuamente a discutere o a sentirci delusi dall’altro – ricominciamo a sentire questa voce che ci ricorda che questa è la nostra realtà, che questo è l’uomo o la donna con cui devo camminare per mano.