ROMA, martedì, 25 ottobre 2011 (ZENIT.org) – Uno dei temi di dibattito di maggiore attualità riguarda il cosiddetto paradosso della “felicità in economia”, una via centrata sulla categoria di bene relazionale. Il senso del discorso ruota attorno al seguente interrogativo: è possibile umanizzare l’economia?
Una domanda ardua a cui dare una risposta, ma è corretto chiedersi se sia legittimo interrogarsi su tale questione. Infatti, che ha senso questa domanda? «Per la fondamentale ragione che l’istituzione di mercato è storicamente nata, al tempo dell’Umanesimo, per consentire che la divisione del lavoro potesse funzionare come strumento di civilizzazione. Chiedendo di specializzarsi in base al loro vantaggio comparato, la divisione (verticale) del lavoro permette di controbilanciare il deficit di fitness dei soggetti meno dotati, fisicamente e intellettualmente» (1).
Quindi, a quanto sembra dalla testimonianza storica, il mercato non nacque per massimizzare i profitti schiacciando ogni altra considerazione attorno a questa esigenza primaria o quanto meno questo sarebbe stato un effetto secondario dai caratteri assolutamente accidentali. Dunque, come prima e importante precisazione, si può certo convenire sul fatto che tutti questi tratti negativi non sono, anzi non dovrebbero essere, tipici del mercato.
Tuttavia nelle condizioni storiche attuali, in cui l’unico modello di economia in atto è quello di mercato, l’interrogativo posto equivale al seguente: è possibile tornare ad umanizzare il mercato? O meglio: ha senso sforzarsi di prefigurare un modello di economia diverso da quello attuale, capace di includere tutte le persone e non solamente quelle adeguatamente “attrezzate” o dotate? È possibile avvalorare, nel senso di attribuire valore a tutte le dimensioni dell’umano sia a quella espressiva sia a quella acquisitiva e non solamente a quest’ultima come oggi stoltamente accade? È giusto parlare di Economia civile?
L’espressione “economia civile”, infatti, è entrata ormai da qualche tempo nel dibattito scientifico, oltre che nel circuito mediatico, ma con significati plurimi, spesso in conflitto. C’è chi la confonde con l’espressione “economia sociale” e chi invece ritiene che economia civile altro non sia che un modo diverso, più antico, di chiamare l’economia politica. Vi sono poi coloro che la identificano con il variegato mondo delle organizzazioni no profit e addirittura coloro che vedono l’economia civile come un progetto intellettuale che si oppone all’economia solidale.
In termini generali con questo termine si fa riferimento a una prospettiva culturale di interpretazione dell’intera economia, alla base di una teoria economica di mercato fondata sui principi di reciprocità e fraternità, alternativa a quella capitalistica.
L’Economia Civile è un’economia di mercato e in quanto tale si basa sui seguenti principi:
1) Concetto di divisione del lavoro, ovvero la specializzazione delle mansioni che ha come conseguenza la realizzazione di scambi endogeni (differenti da quelli “esogeni”, derivanti dall’esistenza di un sovrappiù) che, quindi, vanno ad aumentare la produttività del sistema in cui si inseriscono.
2) Concetto di sviluppo, che, da un lato, presuppone, rifacendosi ad una matrice culturale giudaico-cristiana, l’esistenza di solidarietà intergenerazionale, ovvero di interesse da parte della generazione presente nei confronti di quelle future, mentre, dall’altro, si lega a quello di accumulazione.
3) Concetto di libertà di impresa, secondo il quale chi è in possesso di doti imprenditoriali deve essere lasciato libero di iniziare un’attività. Per doti imprenditoriali si intendono: la propensione al rischio (ovvero l’impossibilità di avere garanzia dei risultati derivanti dall’attività imprenditoriale), l’innovatività o creatività (ovvero la capacità di aggiungere in maniera incrementale conoscenza al prodotto/processo produttivo), l’ars combinatoria (l’imprenditore, conoscendo le caratteristiche dei partecipanti all’attività imprenditoriale, le organizza per ottenere il risultato migliore).
4) Il fine, ovvero la tipologia di prodotto (bene o servizio) da ottenere.
È in particolare quest’ultimo principio a differenziare l’Economia Civile dall’economia di mercato capitalistica: se, infatti, quest’ultima ha assunto come fine proprio del suo agire l’ottenimento del cosiddetto bene totale, l’Economia Civile persegue, invece, ciò che va sotto il nome di bene comune.
Oggi sappiamo che non è possibile comprendere la genesi dell’economia civile e, più in generale, dell’economia politica, senza fare i conti con l’umanesimo e il modello di civiltà che da esso trae forza.
Il mondo tecnicizzato del nostro tempo tende a far coincidere il concetto di felicità con il raggiungimento del benessere materiale attraverso la disponibilità e l’acquisizione di beni, risorse, utilità e servizi, e a confondere la felicità individuale e privata con il benessere collettivo. Il diritto innegabile di tutti gli individui alla felicità si è sempre più trasformato nell’imperativo edonistico del “dover essere felice” ad ogni costo. Quanto questa idea di felicità sia diventata oggi uno degli assi portanti del sistema economico è sotto gli occhi di tutti, alimentando le insicurezze, le insoddisfazioni ed il senso di inferiorità che sembrano caratterizzare l’identità dell’uomo moderno. Per altri versi, appare evidente la dissociazione tra il crescente progresso economico ed il benessere individuale, l’aumento esponenziale di nuove forme di disagio nelle società occidentali, nonché la bassa correlazione esistente tra vari aspetti del benessere e del malessere soggettivi e le condizioni o circostanze esterne, fortunate o sfortunate, con le quali si confronta la nostra vita.
La moderna economia comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona che si esprime in campo economico come in tanti altri campi. L’economia, infatti, è una parte della multiforme attività umana e, in essa, come in ogni altro campo, vale il diritto alla libertà come il dovere di fare un uso responsabile di essa. Ma è importante notare che ci sono differenze specifiche tra queste tendenze della moderna società e quelle del passato anche recente. Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e, più tardi, il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacita di intuire e soddisfare il bisogno dell’altro, soddisfacendo al tempo stesso il suo stesso bisogno di donazione e cioè di felicità.
(1) S. Zamagni, Beni relazionali e felicità pubblica, in S. Semplici, Il mercato giusto e l’etica della società civile, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 3-4.