“Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”

Un convegno per aiutare le tante donne vittime dell’interruzione di gravidanza

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di Elisabetta Pittino

ROMA, lunedì, 23 giugno 2008 (ZENIT.org).- La sindrome del post-aborto è un male subdolo, diffuso e nascosto. Per capire e contrastare questo disagio il 22 maggio scorso si è svolta a Brescia, organizzata dai Centri di Aiuto alla Vita di Brescia e Capriolo, una conferenza sul tema “Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”.

Con il patrocinio dell’Assessorato ai Servizi alla Persona, alla Famiglia e alla Comunità del Comune di Brescia, l’incontro ha preso spunto dal trentesimo anniversario della legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza.

Gli organizzatori hanno rilevato che, considerando “il dolore sotterraneo delle madri che hanno abortito che influisce drammaticamente sulla vita quotidiana della donna, della sua famiglia e sulla società” è giusto osservare la 194 da una prospettiva diversa: “quella delle conseguenze”.

In questa occasione i volontari per la vita, che sono stati quasi gli unici ad ascoltare e ad aiutare, con amore e professionalità, la madre e il suo bambino, chiedono che anche le istituzioni prendano coscienza di questo problema, che si facciano carico della madre che ha abortito, che l’accoglienza alla vita ricominci dalla donna che non l’ha potuta accogliere.

Dopo la presentazione del prof. Massimo Gandolfini, primario Neurochirurgo presso la Poliambulanza in Brescia, Presidente AMCI regionale e Presidente dell’Associazione “Scienza e Vita” di Brescia, è stata la prof. ssa Elena Vergani, neuropsichiatra, tra le massime esperte in Italia del post-aborto, ad aprire la serata spiegando la natura e le implicazioni della sindrome post-abortiva.

Il prof. Gandolfini ha spiegato che l’aborto è come una “mina innescata gettata nel mare”, “come una bomba che distrugge tutto ciò che gli sta intorno: il bambino, la donna, la famiglia, la società”; è qualcosa che “non può non lasciare una conseguenza sulla madre perché va a toccare il suo corpo, la sua intelligenza, il suo essere”.

Il Neurochirurgo ha rilevato che le conseguenze del post-aborto nella donna sono ormai parte della letteratura scientifica e riguardano “la psicosi post-aborto, che, può perdurare per oltre sei mesi ed è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica; lo stress post-aborto, che insorge tra i tre e i sei mesi e rappresenta il disturbo più breve sinora osservato; e la sindrome post-abortiva: un insieme di disturbi che possono insorgere subito dopo l’interruzione come dopo svariati anni in quanto possono rimanere a lungo latenti anche per oltre 30 anni” (in Agnoli F., “Storia dell’aborto” ed. Fede e Cultura, Verona, p. 75, 2008).

La prof. ssa Elena Vergani ha spiegato che nell’aborto c’è sempre una madre e c’è sempre un figlio. Sono loro i protagonisti. C’è anche il padre, ma spesso non ha neppure il ruolo di comparsa.

Madre e figlio sono entrambi silenziosi: il bambino perché è nella pancia della mamma e non può parlare anche se comunica in modo diverso, la madre perché resa muta dal suo dolore, dalla solitudine, dal giudizio degli altri, dalle difficoltà, dalla non accoglienza.

“La legge – ha sottolineato la neuropsichiatria –, per assurdo, prevede la possibilità di abortire quando vi sia un serio o grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna, ma nulla prevede quando il danno serio e grave sia causato proprio dall’aborto”.

“Trent’anni fa non si sapeva dei pesanti effetti causati dall’interruzione volontaria di gravidanza – ha constatato con amarezza la Vergani –. Con superficialità e leggerezza non ci si è occupati della donna-madre come persona, ma solo come problema”.

La neuropsichiatria ha sostenuto che per “curare” la donna “bisogna abbracciare la dimensione antropologica” della gravidanza e dell’aborto: “Non è sufficiente prendersi cura della psiche della donna, ma di tutta la persona nella sua interezza”.

Il fondamento della relazione interpersonale è l’amore, inteso come l’interiorità della persona dove si cerca, si riconosce, si vuole autenticamente il bene. L’amore è volontà di vivere e di far vivere, perché la vita è il primo dei beni. E nella misura in cui ama la persona umana si realizza.

La relazione materna è il prototipo di questo amore: la madre ama la vita del figlio perché gli dà tutta la vita. In questo amare la vita del figlio, la madre si realizza come persona, cresce nella sua vita. E’ anche il figlio allora che dà la sua vita alla madre.

“Questa è la realtà che fonda l’essere umano e viene stravolta dall’aborto”, ha sottolineato la Vergani.

“Le conseguenze dell’aborto sono un impoverimento della realtà – ha sintetizzato la relatrice –. Per questo la lettura psicologica e quella biologica, seppur necessarie, sono riduttive e non sufficienti ad affrontare la sindrome post-abortiva. La relazione madre-figlio non è altro che l’immagine della nostra umanità: la vita è unione di soggetti, questo è esistere”.

L’incontro è stato concluso dall’avvocato Arturo Buongiovanni, penalista e specializzato in bioetica, il quale ha sostenuto: “Se il diritto smette di essere per l’uomo non ha più senso di esistere”.

“Se il diritto non difende il debole, l’indifeso allora si torna alla barbarie della legge del più forte”.

“Se è possibile che qualcuno di noi decida che un altro non ha diritto alla vita diciamo sì alla dittatura, allo schiavismo, alla discriminazione, alla guerra”, ha aggiunto.

“Abbiamo di fronte una battaglia socio-culturale molto importante – ha ribadito l’avvocato Buongiovanni –. Non abbiamo paura di combatterla”.

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ZENIT Staff

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