LUGANO, giovedì, 23 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Da qualche anno a questa parte in troppi ambienti ecclesiali si è fatta strada una diffidenza crescente nei confronti di studi dei testi biblici che anzitutto siano rigorosamente esegetici ed ermeneutici e non legati alle tradizioni culturali più ecclesiasticamente configurate. In nome anche di una seria e condivisibile preoccupazione di non limitare il confronto con i testi al solo momento dell’analisi di essi in sé nei contesti originari, si è allargata ed inasprita, in misura spesso anche cristianamente incongrua, la critica nei confronti di approcci alle Scritture ebraiche e cristiane che appaiono anzitutto esercizi di legittima libertà nella ricerca scientifica in campo biblico e che hanno dato esiti che spesso è culturalmente infondato contestare.
A tale proposito il caso italiano del libro di Corrado Augias e Mauro Pesce “Inchiesta su Gesù” è stato uno dei più emblematici: questo saggio, legittimamente criticabile in alcuni punti (se ne leggano, per esempio, le pp. 25-26.53.245), ha, però, avuto almeno il merito di portare efficacemente, al di fuori delle “accademie” e all’attenzione di un vastissimo pubblico di “non addetti ai lavori”, molte nozioni e varie questioni di ambito biblico di indiscutibile rilievo (si leggano, per esempio, le pp. 13-14.26-27.94-95.101-103.106.136-138.201-221). E quello che, in altro contesto e ad altro livello, ha vissuto recentemente il biblista argentino Ariel Alvarez Valdés non sembra denotare un grande rispetto della sua libertà di ricerca e un’aggiornata competenza scientifica in campo biblico da parte di chi l’ha sospeso dall’insegnamento accademico. Nel merito alcune delle posizioni di Alvarez Valdés possono certamente essere anche poco o per nulla condivisibili, ma occorre, nello spirito, per esempio, del documento della Pontificia Commissione Biblica “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” (1993), aprire il confronto, anche a livello pubblico generale, evitando strategie e provvedimenti che paiono molto più “scorciatoie” primo-novecentesche che scelte proprie della maturità scientifica e dell’equilibrio culturale possibili nel ventunesimo secolo.
Se si afferma, in coerenza, tra l’altro, con varie affermazioni magisteriali illuminanti, dall’enciclica “Providentissimus Deus” (1893) in poi, che l’esegeta è libero di attuare la sua attività in scienza e coscienza, in una logica di comunione ecclesiale intelligente, e che il magistero ecclesiastico è al servizio delle Scritture, è necessario che qualsiasi decisione di chi condivide l’esercizio di tale autorità sia improntata alla massima cautela e prudenza nel merito scientifico e culturale delle questioni. Bisogna favorire ogni approfondimento possibile che non sia ideologico o frutto di paure psico-culturali e di miopie tradizionalistiche. È indispensabile avere il massimo rispetto sia della fede di tutti – Paolo di Tarso, in 1 Cor 8, ne parla diffusamente – sia della dignità delle persone che, spesso a prezzo di sacrifici e fatiche di assoluto rilievo e in condizioni economiche e normative molto difficili, dedicano anni e decenni della propria vita agli studi e agli approfondimenti delle fonti della rivelazione ebraica e cristiana.
Certamente non può esistere, d’altra parte, un’esegesi biblica che, volendo realmente fare i conti, in modo integrale, con il senso del testo, non sia teologica, dunque aperta alla riflessione sul Dio del patto sinaitico e di Gesù Cristo. E non solo su questo, ma anche sull’influenza di essa nella storia della cultura anzitutto euro-occidentale e delle esistenze di coloro che, nei millenni sino ad oggi, si sono sentiti interpellati dal messaggio teologico della Bibbia. Comunque ciò non implica che la Bibbia debba essere letta a partire da testi catechistici e compendi della fede cristiana. Semmai deve avvenire il contrario: occorre leggere questi ultimi chiedendosi se sono effettivamente fedeli espressioni, nelle e per le loro epoche di redazione, del messaggio etico-religioso espresso dai corpora scritturistici ebraico e cristiano.
Rimane, a mio avviso, imprescindibile proporre alla formazione culturale contemporanea, in ogni ambiente raggiungibile, ben al di là di quelli esclusivamente ecclesiastici, una consapevolezza essenziale: leggere un testo biblico in sé e leggerlo per me sono le due tappe di un percorso che necessita di entrambe. Questo discorso vale per la lettura di qualsiasi testo come tessuto di esperienze culturali e, a maggior ragione, per gli scritti biblici. Invece – occorre ribadirlo -:
• vi sono, da un lato, biblisti e bibliste professionali, che ritengono indispensabile per una lettura biblica effettiva soltanto il momento propriamente esegetico, dunque quello in cui si cerca di analizzare i testi in se stessi, ossia per quello che possono dire nel e del contesto storico-culturale in cui sono stati redatti;
• vi sono, dall’altro lato, predicatori, formatrici e formatori, che passano direttamente al momento interpretativo contemporaneo, cioè quello in cui chiedersi che cosa i testi dicano alla propria vita attuale, senza attraversare, anche solo in modo sintetico, la prima fase di carattere esegetico-ermeneutico “antico”.
Il sinodo che volge al termine ha molto insistito e giustamente sulla “patologia” esegetica antichistica. Si è occupato, invece, troppo poco della “patologia” ermeneutica contemporaneistica e delle durezze davvero estrinseche che troppi lettori ecclesiastici delle Scritture ebraiche e cristiane continuano a testimoniare, magari anche perché danno maggiore rilevanza agli scritti e agli interventi dei fondatori dei propri movimenti ecclesiali di riferimento, che alle parole bibliche. Chi si disinteressa nei fatti della portata esistenziale dei testi biblici oppure della necessità di chiedersi effettivamente che cosa i testi dicano in sé perde, per sé e per altri, aspetti e momenti comunque importanti di una lettura biblica che cerchi di essere integrale sotto i profili analitico ed interpretativo.
Cercare di stabilire che cosa i testi abbiano detto ai lettori a loro contemporanei è condizione previa per tentare di capire che cosa possano dire anche alla nostra contemporaneità e quest’ultima attenzione è fondamentale per non condannare all’archeologismo culturale elitario gli sforzi esegetici tout court. Le scorciatoie apparentemente o “davvero scientifiche” o “realmente esistenziali” non rispettano l’integrità dei testi né servono a migliorare la vita di chi legge. Nel confronto con i testi biblici deve avvenire, secondo me, quello che capita nella parabola evangelica del tesoro nel campo (cfr. Mt 13,44-45): per venirne in possesso occorre sapere che esso vale più di ogni cosa, riunire le risorse materiali utili per acquistare il campo che lo contiene e fare la fatica di scavare il terreno per farlo emergere. Tutti i passaggi sono necessari, nessuno escluso. In questo quadro la presa di posizione, in termine di favore o opposizione, rispetto alla fede nel Dio della creazione edenica, dell’alleanza sinaitica, di Gesù Cristo, non è condizione necessariamente presupposta o presupponibile per iniziare e condurre la lettura biblica.
I credenti non ebrei e non cristiani o gli agnostici possono certamente trattare le Scritture come qualsiasi altro documento letterario. La lettura compiuta nella comunione ecclesiale costituisce, però, quando è condotta senza volontà di prevaricazione da parte di alcuno e alla ricerca autentica della relazione con Dio, un momento del tutto privilegiato. Infatti è, tra l’altro, verosimilmente assai vicino alle circostanze formative originarie di molti testi biblici, anzitutto neo-testamentari. D’altra parte resta piuttosto arbitrario affermare che una lettura biblica compiuta da chi non è credente ebreo o cristiano non possa essere formativa e consona al testo scritturistico nella sua sacralità radicale, dalla prima alla nuova alleanza. Esiste un lasci
arsi dire dal testo, un lasciarsi interpretare che riguarda qualsiasi opera letteraria o comunque artistica, condizioni di fronte alle quali quello che conta è soprattutto il punto d’arrivo di chi si è lasciato dire e interpretare, non tanto il suo punto di partenza culturale o religioso, e, comunque, che cosa significhi, in ultima analisi, essere credente al di là delle configurazioni storiche delle comunità di credenti che l’umanità ha conosciuto da millenni a questa parte.
Comunque un credente cristiano che voglia essere parte attiva della sua comunità religiosa d’appartenenza, in una logica seria e matura, deve avere, comunque, una vera e propria competenza in quanto lettore integrale della Bibbia. Non si parla ovviamente di ambiti professionali, ma esistenziali profondi. La competenza cristiana designa, infatti, l’arte di vivere nella fede, in maniera libera, responsabile e inventiva, da persone consapevoli di essere niente di più e niente di meno che creature secondo la figura e ad immagine di Dio. Tale competenza è, in altri termini ancora, l’attitudine a condurre la propria vita, a scriverla personalmente nella fede (fede/amore/speranza) in connessione intelligente con la comunità cristiana e in un contesto culturale dato. Paolo di Tarso, verosimilmente, pensava a credenti liberati ed appassionati in questi termini, quando “scriveva”, in particolare, ai cristiani corinzi, galati e romani. E in un anno come questo, dedicato alla sua figura e alla sua opera, è particolarmente importante abbandonare i tradizionalismi formativi e i devozionismi radicati in un passato auspicabilmente da lasciare alle spalle, e chiedersi come moltiplicare le iniziative di formazione ecclesiale che rendano sempre più biblica l’intera azione pastorale. Bambini, giovani e adulti hanno bisogno di familiarizzarsi con le Scritture ebraiche e cristiane per imparare a leggere sempre più e sempre meglio la propria e altrui vita con occhi biblici.
Al di fuori di ogni paura, di ogni integrismo fondamentalista, per poter entrare nella logica del Regno di Dio, che, almeno dal I secolo d.C., non garantisce tranquillizzazioni interiori micragnose e a buon mercato, ma colma la vita di chi vi si lascia coinvolgere di una bellezza e di una bontà incomparabili. Insieme ad altri e per altri, al di là delle barriere che nella prassi dell’esistenza molti sono assai capaci di creare, magari dicendosi credenti e affermando di agire così per difendere la propria e altrui fede dal relativismo e dalla secolarizzazione…
***********
* Il prof. Ernesto Borghi è docente di esegesi biblica al Corso Superiore di Scienze Religiose di Trento e all’Istituto di Scienze Religiose a Bolzano, nonché presidente dell’Associazione Biblica della Svizzera Italiana e coordinatore della formazione biblica nella Diocesi di Lugano. Di recente ha curato insieme a Renzo Petraglio il volume “La scrittura che libera. Introduzione alla lettura dell’Antico Testamento” (Borla Edizioni, Roma 2008, 512 pagine, 38 Euro) ed ha pubblicato “Il Tesoro della Parola. Cenni storici e metodologici per leggere la Bibbia nella cultura di tutti” (Borla Edizioni, Roma 2008, 144 pagine, 16 Euro).