di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 30 settembre 2008 (ZENIT.org).- I Vescovi auspicano una legge di fine vita per evitare “eutanasia e accanimento terapeutico”. E' quanto ha precisato monsignor Giuseppe Betori nel corso della conferenza stampa per la presentazione del comunicato finale del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

Martedì 30 settembre, nella sala Marconi della Radio Vaticana, a Roma, rispondendo alle domande incalzanti dei numerosi giornalisti presenti, il Segretario Generale della CEI ha spiegato che l'episcopato italiano guarda con favore all’ “opportunità di una legislazione sul fine vita, nella direzione però del ‘favor vitae’”.

Monsignor Betori si è rifiutato di parlare di ‘Testamento biologico’, perché questo termine viene spesso collocato in una cultura che “ritiene l’autodeterminazione in ordine alla propria morte a disposizione della persona umana”.

Mentre, secondo la CEI, “la vita e la morte non sono a disposizione di nessuno, neanche di sé stessi”. “Noi – ha detto il nuovo Arcivescovo di Firenze – preferiamo proteggere la vita e rendere degno il momento della fine della propria esistenza”.

Per questo si rende necessario una legge per la “salvaguardia della vita, non della disponibilità della persona a mettere fine alla propria esistenza, secondo quel principio di autodeterminazione che alcuni vorrebbero prevalente rispetto al principio di indisponibilità della vita”.

Circa l’opportunità o meno di una legge sul fine vita, monsignor Betori ha spiegato che “c’è stato un cambiamento nella percezione delle situazione legislativa, ed alcuni procedimenti giudiziari stanno aprendo la strada all’interruzione legalizzata della vita”.

Il Segretario generale della CEI ha ribadito che per i Vescovi italiani questo significa “né accanimento, né abbandono terapeutico; attenzione alle volontà del paziente, purché chiare, esplicite, aggiornate, e non presupposte o derivate dallo stile di vita”.

In merito alle dichiarazioni previe sulle volontà del fine vita, monsignor Betori ha fatto alcune precisazioni: “queste volontà sono solo un orientamento, che è competenza del medico valutare in scienza e coscienza, all’interno dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente”.

Per il presule, “nessuna volontà può essere derivata dagli stili di vita di una persona, se questa volontà non viene messa per iscritto e legalizzata”.

“Questo non significa – ha però precisato – che questa volontà diventa volontà decisionale, ma una volontà con cui si confronta il medico per valutare quale sia la migliore cura, senza derive né in senso eutanasico, né nella direzione dell’accanimento terapeutico”.

Dopo aver ribadito che “l’idratazione e l’alimentazione non sono attività curative, ma sostegno vitale della persona stessa”, monsignor Betori ha sottolineato che in una eventuale legge sul fine vita servono “dichiarazioni inequivocabili e certe, ma non nel senso di una volontà che decide circa la propria vita, bensì di una volontà di cui il medico deve tener conto circa la valutazione della cura”.

Alla domanda su come sta cambiando l’orientamento della CEI in merito ad una legge sul fine vita, il nuovo Arcivescovo di Firenze ha affermato che “non si tratta di un cambiamento voluto da noi, ma da chi ha creato una legislazione insicura per la vita delle persone”.

“Con questo uso della legge – ha proseguito –, non c’è più sicurezza per la fine di vita di ciascuno di noi, dunque c’è bisogno di salvaguardarlo: è logico che tutto ciò provochi non una rottura, ma un dibattito”.

“Dibattito – ha concluso monsignor Betori – che però arriva ad una concordanza. Si tratta di un dibattito fruttuoso, che aiuta a mettere a fuoco certe problematiche”.