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a) La «somma dell’evangelo»: l’amore divino che previene

Dio chiama e salva la Sua creatura con un amore assolutamente gratuito: è questo il Vangelo di Paolo, la buona novella di una chiamata e di un dono non meritati né meritabili, la cui ragione ultima resta nascosta negli abissi della misericordia divina, senza calcolo e senza misura. È il Vangelo della pura grazia, che uno dei suoi cantori più alti - Martin Lutero - esprime così nella Disputatio di Heidelberg, vero manifesto del suo pensiero: «L’amore di Dio non trova, ma crea il suo oggetto. L’amore dell’uomo dipende dal suo oggetto... L’amore di Dio ama i peccatori, i malvagi, gli stolti, i debol­i, in modo da renderli giusti, buoni, saggi, forti, effondendo e donando il bene. Infatti i peccatori sono belli perché sono amati, non sono amati perché sono belli. L’amore dell’uomo, invece, fugge i peccatori, i malvagi»1. A questo Dio Al­tro, che ama come nessuno ama, va data gloria, a Lui solo: la purezza del dono, la gratuità assoluta merita l’assoluta glorificazione.

C’è da perdere la ragione di fronte a quest’abissale gratuità: lo sa bene Paolo che, per sottolinearne il carattere paradossale al di là di ogni dubbio, nella Lettera ai Romani non esita a richiamare la sconcertante affermazione di Malachia «ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù» (1,2s: cf. Rm 9,13) e ad aggiungere: «Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole» (Rm 9,14-18). Contro l’obiezione che potrebbe sollevarsi l’Apostolo ribadisce l’insondabile sovranità della libertà divina: «Mi potrai però dire: “Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?”. O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: “Perché mi hai fatto così?”. Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?» (Rm 9,19-21: analoga argomentazione in 3,7 e 6,1).

È questo mistero dell’assoluta gratuità che unisce Israele e la Chiesa, in quanto sono il popolo dell’elezione, rispettivamente dell’attesa e del compimento (cf. Rm 11): Israele è la «santa radice» (Rm 11,16), la Chiesa il sorprendente innesto, «portato» da essa (cf. v. 18). Tuttavia, c’è una pietra d’inciampo, in rapporto alla quale si compie il dramma del rifiuto del popolo della prima alleanza ed il passaggio della salvezza al popolo dell’alleanza nuova (cf. Rm 10): «Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede» (Rm 10,4). Cristo è al tempo stesso Colui che unisce e separa Israele e la Chiesa! La fede di Gesù li unisce, la fede in Lui li separa! Da queste premesse risulta chiaro che il problema di Paolo nei capitoli 9-11 della Lettera ai romani non è tanto quello teologico-speculativo della predestinazione dell’individuo, quanto quello storico-salvifico del destino dell’antico popolo eletto nell’economia della salvezza pienamente realizzata in Cristo e nello Spirito. Ciò che egli intende sottolineare è il primato della libertà e della gratuità dell’iniziativa divina e l’assoluta fedeltà del Dio dell’alleanza, con la conseguente speranza di una futura reintegrazione d’Israele, in cui verranno a compimento tutte le promesse dell’elezione mai revocata (cf. Rm 11,11-15 e 25-32): perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,29).

Il tema paolino dell’elezione situa dunque l’idea di predestinazione all’interno del disegno storico-salvifico dell’alleanza, che si compie in pienezza per mezzo di Gesù Cristo, con lui ed in lui, e si attua nel tempo per la potenza dello Spirito Santo. Oggetto puro dell’elezione - predestinazione è lui, il solo mediatore fra Dio e gli uomini (cf. 1 Tm 2,5), ed in lui la comunità degli eletti, il popolo santo di Dio: il singolo è eletto e predestinato nella comunione dell’alleanza. La dottrina dell’elezione - predestinazione è perciò essenzialmente la «buona novella» della grazia con cui Dio ha amato tutti gli uomini e li ha chiamati alla comunione con sé, messaggio di consolazione e di speranza per il mondo intero: è la «somma dell’evangelo»2. Perciò può essere veramente accettata solo da chi è pronto a riconoscere nella fede l’assoluto primato di Dio: è ancora Lutero a osservarlo, distinguendo tre gradi possibili nell’accoglienza spirituale di questo messaggio: «Il primo grado è quello di coloro che sono contenti di una tale vo­lontà di Dio e non mormorano contro di Lui, ma confidano di es­sere eletti e non vor­rebbero essere dannati. Il secondo grado, migliore del precedente, è quello di co­loro che sono rassegnati e d’animo contento o, per lo meno, desi­derano essere tali, se Dio non volesse sal­varli e volesse, invece, considerarli nel novero dei reprobi. Il terzo grado, che è il migliore e il sommo, è formato da co­loro che si rassegnano anche effetti­vamente all’inferno se è volontà di Dio, come forse nell’ora della morte capita a molti. Questi sono purificati nel modo più perfetto dalla loro volontà e dalla prudenza della carne. Questi sanno che cosa significhi che “Forte come la morte è l’amore e tenace come l’inferno è la gelosia” (Ct 8, 6)»3. Dove ­c’è un così puro amore di Dio, lì c’è la certezza di essere salvati, lì il pensiero della predestinazione diventa il più consolante, garanzia inconfutabile che il Dio fedele non perderà colui che ha scelto. Per chi è così abbandonato in Dio - e Paolo lo era - la predestinazione non spaventa, proprio perché fonda nel mistero insondabile ed assoluto di Dio la fragile e caduca vi­cenda umana. Ma vuol dire questo che vi sia anche una doppia predestinazione, degli uni alla salvezza, degli altri alla dannazione eterna?

b) La «doppia predestinazione»: quale libertà davanti al Dio che è amore?

In Paolo - e in generale nella testimonianza biblica - non compare mai l’idea di una «doppia predestinazione», di una decisione divina, cioè, eterna ed assoluta rispetto all’azione di Dio nella storia (decretum absolutum), in base a cui alcuni sono predestinati alla salvezza e altri alla dannazione. Si può anzi dire che lo sviluppo della dottrina della praedestinatio gemina è il segno di un profondo allontanamento dalla voce della Scrittura. L’allontanamento si è compiuto attraverso un duplice processo, che il cristianesimo ha vissuto nel secolare sviluppo della sua inculturazione nel mondo classico prima, in quello medioevale e moderno poi: da una parte, l’idea di predestinazione ha subito il fascino della metafisica greca; dall’altra, è stata condizionata dall’interesse crescente della cultura occidentale al destino individuale4.

Il primo processo consegue all’incontro del messaggio ebraico-cristiano con la cultura greco-latina: lo spirito della grecità, ammaliato dall’ideale dell’Uno altro e sovrano rispetto al molteplice frammentario e caduco, mal tollera l’idea di un piano divino, qual è quello trinitario, in cui il molteplice viene a dimorare nelle profondità dell’Uno. La storia delle eresie cristologiche e trinitarie mostra come si sia affacciata presto la tendenza a separare il divino dall’umano, per fare di volta in volta del Cristo o una semplice creatura, sia pure di livello supremo (“subordinazionismo”), o una semplice manifestaz ione dell’unica, incontaminata divinità (“modalismo”)5. Lo sviluppo del dogma reagirà a questo svuotamento del paradosso cristiano (evacuatio Christi), ribadendo lo scandalo dell’incontro del divino e dell’umano nel Verbo incarnato senza confusione né mutazione, ma anche senza separazione né divisione6, ed affermerà l’assoluta parità nell’essere divino del Figlio e dello Spirito col Padre7. Non di meno, il fascino dell’Assoluto metafisico penetrerà nella cultura cristiana, fattasi greca con i greci. Sul tema della elezione di grazia e della predestinazione questo fascino si tradurrà nell’esigenza di concepire il disegno di Dio sull’uomo in forma «pura», separata dalle contaminazioni della caducità e della frammentarietà storica: l’idea di un decreto divino assoluto, non condizionato dal divenire mondano, si profilerà in questa direzione come l’espressione di una corretta relazione fra l’Assoluto e la storia.

È così che nel grande dottore della dottrina della predestinazione, Agostino, motivi autenticamente biblici vengono ad incontrarsi con le esigenze dello spirito greco. La classica definizione agostiniana della praedestinatio è del tutto corrispondente all’anima biblica, in particolare paolina: «Nient’altro che questo è la predestinazione dei santi: la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio, mediante i quali in modo del tutto certo sono liberati tutti quelli che sono liberati»8. Risuona in queste parole la buona notizia della libertà donata all’uomo per pura grazia dall’iniziativa divina. Parimenti in piena sintonia con la Scrittura sono le affermazioni che riconoscono in Cristo il luogo vivente in cui si compie e si rivela ogni predestinazione: «Il Salvatore in persona, il Mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, è il lume risplendente della predestinazione e della grazia»9.

Insieme a queste tesi, però, al fine di affermare l’assoluto primato della grazia, la distinzione tra i vocati e gli electi10 viene collegata ad un unico proposito divino, che nella massa perditionis sceglie alcuni perché siano salvati, lasciando i rimanenti nella condizione di dannazione, del tutto meritata11: «Il proposito di Dio non si basa su di un’elezione, ma è invece l’elezione che dipende dal proposito; ciò significa che il proposito di giustificazione permane non perché Dio trovi nell’uomo delle opere buone, in base alle quali egli possa fare la sua scelta, ma, in quanto il proposito di salvezza continua ad operare per la giustificazione dei credenti, Dio trova le opere, che egli poi elegge in vista del regno dei cieli»12. Secondo Agostino il fatto che Dio elegga alcuni e lasci altri nella condizione di massa dannata non inficia la giustizia divina, perché a nessuno è dovuto altro, che la condanna: «Si deve solo affermare, con fede irremovibile, che in Dio non c’è iniquità: sia che voglia rimettere il debito, sia che lo voglia esigere, né colui al quale lo richiede, né colui al quale viene condonato può vantarsi dei suoi meriti. All’uno infatti dà solo ciò che spetta; l’altro ha solo ciò che ha ricevuto»13. È così aperta la strada all’affermazione di un decretum absolutum di Dio indipendente da ogni scelta storica e all’idea ad esso connessa di una doppia predestinazione14.

Sarà in Giovanni Calvino che le idee del decretum absolutum e della gemina praedestinatio verranno formulate in maniera compiuta e con rilievo assoluto15: anche per lui l’intenzione ultima è quella di celebrare il trionfo della grazia e l’assoluta sovranità della libertà divina di eleggere o rigettare chiunque. Il prezzo pagato, però, è l’abbandono del cristocentrismo biblico e il cedimento a un pensiero speculativo sulla divinità e sul suo rapporto col mondo, che contraddice proprio alla profonda ispirazione scritturistica voluta dalla Riforma e giustifica la concentrazione dell’interesse sul destino del singolo uomo a scapito dell’orizzonte comunitario dell’alleanza, caratteristico della concezione biblica. «Definiamo predestinazione il decreto eterno di Dio, per mezzo del quale ha stabilito che cosa voleva fare di ogni uomo. Infatti non li crea tutti nella medesima condizione, ma ordina gli uni a vita eterna, gli altri all’eterna condanna. Così in base al fine per il quale ciascuno è creato, diciamo che è predestinato alla vita o alla morte»16. In questa concezione la predestinazione perde completamente il carattere di buona novella e diventa un concetto speculativo, al cui interno è possibile distinguere, come strutture parallele di una medesima architettura, l’elezione e la riprovazione. Un sistema simmetrico concettuale, in cui giustizia e misericordia si equilibrano reciprocamente, prende il posto dell’eccesso d’amore e di compromissione da parte del Dio vivente, che costituisce il cuore e lo scandalo dell’evangelo paolino. Il Dio sovrano, indifferente all’uno o all’altro destino della sua creatura, prende il posto del Dio crocifisso per la salvezza del mondo.

È perciò tanto più significativo che proprio dalla tradizione riformata sia venuta la più vigorosa confutazione della concezione della predestinazione come «decreto assoluto» e sistema neutrale di destini paralleli: è, infatti, Karl Barth che ha ripensato dalle fondamenta la dottrina della elezione divina per grazia, riportandola alle sorgenti paoline, e in generale bibliche, in dialogo con l’intera tradizione cristiana17. La critica decisiva che Barth muove a Calvino riguarda appunto la separazione fra Dio e Gesù Cristo nella dottrina della doppia predestinazione: «Per lui il Dio-che-elegge è un “Dio nudo nascosto” (Deus nudus absconditus) e non il “Dio rivelato” (Deus revelatus), il Dio eterno. Tutti gli altri difetti della dottrina calviniana della predestinazione sono riconducibili a questa deficienza capitale. Il Riformatore (contro le sue intenzioni) ha finito per separare Dio da Gesù Cristo; ha creduto di poter cercare altrove che in Gesù Cristo ciò che è all’inizio con Dio; in una sola parola, pur proclamando con la veemenza di cui si sa l’elezione gratuita, alla fin fine è passato accanto alla grazia di Dio manifestata in Gesù Cristo»18.

La via di superamento di questa «deficienza capitale» sta per Barth nel ritorno al «cristocentrismo radicale», che egli vede testimoniato dalla Scrittura, e specialmente da Paolo: «Per sapere che cosa sia l’elezione ed in che cosa consista lo stato di eletto, dobbiamo innanzitutto, senza sbirciare a destra o a sinistra, dirigere la nostra attenzione sul nome di Gesù Cristo, sull’esistenza e sulla storia del popolo divenute realtà in lui, e la cui origine e la cui fine sono contenute e determinate nel mistero di questo nome. Lo vediamo chiaramente: tutte le affermazioni della Scrittura su Dio e sull’uomo coincidono in un solo e medesimo punto; anche le proposizioni relative all’elezione dell’uomo da parte di Dio devono essere concepite ed elaborate in funzione di quanto accade in questo unico punto; in effetti è qui che vi è elezione... È il nome di Gesù Cristo ad essere, secondo l’autorivelazione divina, il centro verso cui convergono, come due raggi luminosi, le due linee della verità che deve essere riconosciuta a questo punto: il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto»19. Barth articolerà perciò la dottrina dell’elezione di grazia e della predestinazione partendo dall’elezione di Gesù Cristo, in cui coglie l’elezione della comunità, per giungere così all’elezione dell’indivi duo, mai separata o separabile da quella del Signore Gesù e della comunità in lui.

c) Predestinati nella Trinità: fatti per amare, “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” (S. Giovanni della Croce)

Gesù Cristo è al tempo stesso il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto: è in questa affermazione decisiva che Barth vede formulato «nella maniera più semplice e più completa il contenuto del dogma della predestinazione»20. Egli la difende perciò su un duplice fronte, da una parte rifiutando attraverso di essa ogni concezione del «decreto assoluto»; dall’altra opponendosi ad ogni possibile suggestione di autoredenzione dell’uomo. Se Cristo è il Dio che elegge, l’elezione è inseparabile dalla storia della salvezza in cui si compie il mistero dell’incarnazione: non c’è pertanto alcun proposito divino astratto, alcun decretum absolutum, che preceda e superi il disegno della redenzione attuata nel tempo21. La predestinazione «non è semplicemente lo schema o il programma di una storia. È realmente essa stessa una storia precisa ed unica all’interno della volontà e della decisione divina»22. Questo forte legame fra l’eternità e il tempo, postulato dalla predestinazione, non significa però che il mondo storico sia protagonista assoluto del mistero dell’elezione: a questa supposizione si oppone la tesi che Cristo, il Dio-che-elegge, è anche e inseparabilmente l’uomo-eletto, nel quale ogni altra elezione viene a realizzarsi. Nessuna predestinazione avviene al di fuori di Cristo o indipendentemente da lui23.

Nella luce di questo rigoroso cristocentrismo viene interpretata la dottrina della «doppia predestinazione»: Barth rifiuta senza appello l’idea di una simmetria, che veda da una parte gli eletti, dall’altra i reprobi nel proposito divino sulla storia. La predestinazione è unica, ed è quella che ci è stata rivelata in Gesù Cristo: «L’elezione gratuita è l’origine eterna di tutte le vie e di tutte le opere di Dio in Gesù Cristo, in questo senso che, nella sua libera grazia, Dio si autodetermina in favore dell’uomo peccatore, onde destinarlo alla sua appartenenza»24. Nell’unità di questo disegno di grazia, però, Gesù Cristo non solo ci dona la sua salvezza, ma prende anche su di sé la nostra miseria, in modo tale che in lui si compie la condanna e il rifiuto del peccato del mondo da parte di Dio: «Dio prende dunque su di sé la riprovazione che pesa sull’uomo, con tutte le sue conseguenze ed elegge quest’uomo, onde dargli partecipazione a quella gloria che è la sua»25. Cristo è perciò al tempo stesso l’uomo eletto e l’uomo rifiutato, l’eletto che subisce la pena al posto dei reprobi, ed assomma perciò in sé il doppio destino dell’elezione e della riprovazione, a favore della riconciliazione del peccatore: «Ecco in che cosa consiste la libera grazia per tutti coloro che Dio ha eletto nell’uomo Gesù: poiché in lui Dio, il giudice, prende ed occupa il loro posto, il posto del condannato, essi sono completamente assolti, liberati dal loro peccato, dalla loro colpa, dal loro castigo»26. Il contenuto di verità dell’idea di una «doppia predestinazione» si riconduce allora alla duplice volontà divina di condannare il peccato e di salvare il peccatore in Gesù Cristo: quello che in essa resta del tutto inaccettabile è la presunta simmetria di un disegno assoluto di vita per gli uni e di morte per gli altri27.

L’elezione realizzatasi in Gesù Cristo raggiunge l’uomo attraverso la mediazione necessaria della comunità: «è nella e con l’elezione di Gesù Cristo, con la mediazione della comunità, che gli eletti sono eletti»28. Questa mediazione comunitaria ha due aspetti, al tempo stesso temporali e ontologici: Israele e la Chiesa, l’attesa e il compimento, l’attestazione del giudizio e quella della misericordia. «Questa comunità unica ha un duplice aspetto: in quanto Israele attesta il giudizio divino, in quanto chiesa attesta la misericordia divina. In quanto Israele è destinata ad intendere ed in quanto chiesa è destinata a credere la promessa fatta agli uomini. Israele è la forma passeggera, la chiesa la forma futura del popolo di Dio eletto»29. Proprio in quanto tali, i due aspetti si coappartengono, e sono presenti l’uno nell’altro, fino al tempo in cui si compirà manifestamente la redintegrazione d’Israele: così Barth riguadagna il punto di partenza della riflessione paolina nella lettera ai Romani (cf. Rm 11).

All’interno di questa mediazione storico-comunitaria va collocata e intesa l’elezione dell’individuo: compiuta in Gesù Cristo, storicamente si realizza attraverso la testimonianza e la fede della comunità. «Se il vero oggetto dell’amore di Dio non è costituito da nessun altro “individuo” all’infuori di lui, ne deriva che nessuno, all’infuori di lui, può essere divorato dal fuoco di quell’amore, cioè dalla collera divina; tutti gli eletti e tutti i riprovati hanno la funzione di indicare questo amore divino nel suo duplice aspetto; e hanno la funzione di vivere, nella loro diversità, del fatto che Dio ha amato questo solo essere per amarli in lui ieri, oggi e domani»30. La grandiosa costruzione barthiana fa così risuonare la buona novella dell’amore divino rivelato e offerto in Gesù Cristo per la salvezza di chi l’accoglie e la dannazione di chi lo rifiuta. Il merito di Barth è indiscutibilmente quello di un ritorno al Vangelo paolino della grazia, quale è delineato specialmente nella lettera ai Romani31. Non mancano, tuttavia, i punti deboli, su cui si è appuntata la discussione critica32: in modo particolare, si insinua il sospetto che il rigoroso cristocentrismo della predestinazione si risolva in una generale assoluzione della colpa, e perciò in una necessaria riconciliazione totale, che verrebbe a consumarsi al di là delle possibili resistenze e inadempienze dei singoli.

In questa prospettiva, molto vicina all’idea di una “apocatastasi” finale, la stessa serietà e la dignità del divenire storico verrebbero compromesse33: se tutto è comunque destinato all’irresistibile trionfo della grazia, non c’è più spazio per la libertà umana e conseguentemente per la prova e la lotta in cui si compiono i destini degli uomini. L’ottimismo della grazia presta il fianco a questo sospetto: «Tale è precisamente il contenuto, il duplice contenuto della predestinazione divina ed eterna, dato che essa è identica all’elezione di Gesù Cristo: Dio vuole essere perdente affinché l’uomo sia vincente. Salvezza sicura per l’uomo, pericolo altrettanto sicuro per Dio»34. «Noi conosciamo in realtà soltanto un trionfo dell’inferno ed è l’abbandono di Gesù Cristo; e sappiamo che questo trionfo ha avuto luogo affinché non ce ne fossero mai più altri, affinché l’inferno non potesse più vincere nessuno... Gesù Cristo è stato perduto (ma anche ritrovato) affinché nessuno, a parte lui, lo fosse»35.

La forza di queste affermazioni è tale, che lo stesso Barth sente il bisogno di prendere le distanze dalla possibile conseguenza di una “apocatastasi” in nome dell’assoluta libertà di Dio, anche se lascia decisamente aperta la possibilità di essa, come conseguenza del rigoroso cristocentrismo dell’elezione divina: «È Dio a determinare senza appello l’ampiezza del cerchio dell’elezione; che tale cerchio poi debba coprire alla fine l’intera umanità (secondo la dottrina dell’apocatastasi), è però una tesi che non dobbiamo formulare, proprio per rispetto alla libertà di Dio; la libertà di Dio non è infatti un codice da cui potere trarre diritti ed obbligazioni... Ma bisogna anche dire subito: la conoscenza della grazia che accompagna la libertà divina deve impedirci di formulare la tesi contraria, di affermare cioè l’impossibilità di considerare l’allargamento totale e supremo del cerchio dell’elezione e della vocazione»36. Il rischio di cadere nello spregiudicato ottimismo dell’“apocatastasi” e nel conseguente svuotamento della tragica serietà della storia non è eliminato: il trionfo della grazia minaccia col suo eccesso proprio la verità dell’amore divino, che è tale solo se non annulla l’alterità delle creatura, chiamata a ricambiare l’amore e tuttavia capace di rifiutarlo nel dramma, sempre possibile, del peccato.

In realtà è il Padre il soggetto originario e fondante di ogni elezione divina: principio senza principio della vita eterna dei Tre, risiede in Lui ogni inizio. Certamente, in forza della perfetta comunione che c’è fra di loro, se il Padre è colui che elegge, non di meno lo è il Figlio: tuttavia, la distinzione nella relazione personale evidenzia la profondità ed anche l’insondabilità del disegno divino. Nella Parola fatta carne l’elezione è rivelata al mondo: ma la sua origine ultima resta nascosta nel silenzio del Padre, che comunicandosi nel Verbo resta più grande rispetto alla presa della storia. Evidenziare il ruolo del Padre nel disegno della predestinazione significa allora rispettare maggiormente l’insondabile sovranità divina, per affidarsi ad essa non nella timorosa obbedienza che richiederebbe un oscuro «decreto assoluto» della divinità, ma nella confidenza filiale di chi - con Cristo e per Cristo - si rimette completamente nelle mani del Dio vivente: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà... Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 22,42 e 23,46).

Insieme al ruolo del Padre, è necessario richiamare anche la specifica presenza dello Spirito nel mistero dell’elezione e della predestinazione: è Lui a unire il presente degli uomini all’Eterno e a mantenerlo nella sua libera alterità rispetto a Dio. Grazie allo Spirito Santo la creatura è insieme totalmente dipendente da Dio e libera davanti a Lui, capace di scelte di accettazione e di rifiuto. Lo Spirito Santo - condizione eterna di unità fra il Padre e il Figlio e fra di loro e il mondo creato - è il luogo eterno della libertà, colui che partecipa all’essere personale creato la libertà nell’amore: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3,17). Grazie allo Spirito Santo la libertà dell’uomo non solo non si oppone all’assoluto primato di Dio, ma ne manifesta la gloria: nel vincolo e nel dono del Paraclito l’essere libero della persona umana non fa concorrenza a Dio, non ne nega la sovranità senza residui, ma rivela la stessa gratuita libertà dell’amore divino, che ha voluto che la creatura esistesse come altra da sé, capace di libertà davanti a sé, e perciò capace di amare o rifiutare l’amore.

Nello Spirito, dunque, la predestinazione divina non nega la libertà umana, ma l’afferma: l’umiltà e la compassione di Dio rendono possibile come dono e grazia l’esistenza della creatura libera di salvarsi o di perdersi, fermo restando il mistero dell’elezione avvenuta in Cristo per tutti e perciò gratuitamente offerta a ciascuno per le vie misteriose dell’azione del Consolatore nella storia. La buona novella dell’elezione divina è l’annuncio che Dio vuole tutti salvi e a tutti dona la salvezza in Gesù Cristo, ma che egli vuole anche ed inseparabilmente tutti liberi di accogliere il dono o di chiudersi ad esso, impegnandosi con sovrana umiltà a rispettare il rifiuto della creatura, che pure è sofferenza per il suo cuore di Padre (cf. Lc 15,11ss). La libertà divina si autolimita per amore perché esista la libertà umana: colui che ci ha creato senza di noi, non ci salverà senza di noi, anche se ha fatto e farà di tutto in Cristo e nello Spirito perché nessuno si perda. La dottrina della predestinazione non è che la sottolineatura dell’insondabilità del Vangelo della grazia, offerta alla libertà del cuore umano per la sua salvezza. I capitoli 9-11 della lettera ai Romani non sono preceduti a caso dal canto dello Spirito e dalla meditazione della dialettica di sofferenza e gloria in Rm 8, che è poi la dialettica della grazia e della libertà, del dono e dell’amore che può accoglierlo o rifiutarlo nel tempo e per l’eternità...

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1 Disputatio di Heidelberg (1518), in WA (Weimarer Ausgabe: D. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtau­sgabe, Weimar 1883 ss; ristampa: Graz 1964 ss) 1, 365: «Amor Dei non invenit sed creat suum diligibile, Amor hominis fit a suo diligibili... Amor Dei... diligit peccatores, malos, stultos, in­firmos, ut faciat iustos, bonos, sapientes, ro­bustos et sic effluit potias et bonum tribuit. Ideo enim peccatores sunt pulchri, quia diliguntur, non ideo diliguntur, quia sunt pulchri. Ideo amor hominis fugit peccatores, malos».

2 K. Barth, La dottrina dell’elezione divina. Dalla Dogmatica Ecclesiastica, a cura di A. Moda, Torino 1983 (= Die Kirchliche Dogmatik II/2: Die Lehre von Gott. Gottes Gnadenwahl, Zürich 1942. 19594, 1-563), 155.

3 WA 56, 388: «Tres autem gradus signorum electionis. Primus eorum, qui con­tenti sunt de tali vo­luntate Dei neque murmurant contra Deum, Verum confidunt se esse electos et nollent se damnari. Secundus melior eorum, qui resignati sunt et contenti in affectu vel saltem desiderio huius affectus, si Deus nollet eos sa­luare, Sed inter reprobos habere. Tertius optimus et extremus eorum, qui et in effectu seipsos resignant ad infernum pro Dei voluntate, Vt in hora mortis fit fortasse multis. Hii perfectissime mundantur a propria voluntate et prudentia carnis. Hii sciunt, quid sit illud: Fortis vt mors dilectio Et dura sicut infernus emulatio».

4 Nell’ambito della bibliografia sulla storia e la teologia dell’idea di predestinazione cf.: K. Barth, La dottrina dell’elezione divina. Dalla Dogmatica Ecclesiastica, o.c.; M. Löhrer, Azione della grazia di Dio come elezione dell’uomo, in Mysterium Salutis 9(IV/III), Brescia 1975, 225-295; A. Moda, La dottrina dell’elezione divina in Karl Barth, Bologna 1972; J. Moltmann, Prädestination und Perseveranz, Neukirchen 1961; J. Mouroux, Il mistero del tempo. Indagine teologica, Brescia 1965; K. Schwarzwäller, Das Gotteslob der angefochtenen Gemeinde. Dogmatische Grundlegung der Prädestinationslehre, Neukirchen 1970; G. Tourn, La predestinazione nella Bibbia e nella storia. Una dottrina controversa, Torino 1978.

5 Cf. in proposito la storia del dogma cristologico e trinitario: ad esempio in B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Milano 19896, 133ss, e Id., Trinità come storia, Milano 19884, 60ss.

6 Cf. i quattro avverbi usati a Calcedonia (451): DS 301s.

7 Nel cosiddetto «episodio dommatico» che va da Nicea (325) al Costantinopolitano I (381): cf. DS 125s e 150.

8 De dono perseverantiae, XIV, 35: «Haec est praedestinatio sanctorum, nihil aliud: praescientia scilicet, et praeparatio beneficiorum Dei, quibus certissime liberantur, quicumque liberantur» (PL 45,1014).

9 De praedestinatione sanctorum XV, 30: «Est praeclarissimum lumen praedestinationis et gratiae ipse Salvator, ipse Mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus» (PL 44,981).

10 Cf. De correptione et gratia, VII,13s; IX,21-23; XIII,39s: PL 44,924s. 928-930. 940.

11 De dono perseverantiae, XIV, 35: «Caeteri autem ubi nisi in massa perditionis iusto divino iudicio relinquuntur?» (PL 45,1014).

12 Ad Simplicianum, I, 2, 6: «Non ergo secundum electionem propositum Dei manet, sed ex proposito electio: id est, non quia invenit Deus opera bona in hominibus quae eligat, ideo manet propositum iustificationis ipsius; sed quia illud manet ut iustificet credentes, ideo invenit opera quae iam eligat ad regnum coelorum» (PL 40,115).

13 Ib., I, 2, 17: «Illud tantummodo inconcussa fide teneatur, quod non sit iniquitas apud Deum: qui, sive donet, sive exigat debitum, nec ille a quo exigit, recte potest de iniquitate eius conqueri, nec ille cui donat, debet de suis meritis gloriari. Et ille enim, nisi quod debetur, non reddit: et ille non habet, nisi quod accepit» (PL 40,122).

14 Lo sviluppo di queste tesi nell’agostinismo patristico e medievale si compirà sotto la spinta della “pia” cura di voler celebrare in maniera sempre più radicale l’assolutezza della grazia contro ogni tentazione pelagiana. Un intervento come quello del sinodo di Quiercy (853) evidenzia la necessità che si era venuta profilando di riequilibrare la linea di tendenza dell’agostinismo esagerato: cf. DS 623. Il Sinodo aveva di mira la condanna della dottrina della doppia predestinazione di Gottschalk di Orbais. Trento ribadirà questa condanna nei canoni del Decretum de iustificatione: DS 1567. Nella stessa linea di un agostinismo moderato si era mosso San Tommaso d’Aquino: cf. Summa Theologiae I q. 23 a. 5c. Tuttavia la sua interpretazione orienterà verso la tesi di un decreto divino assoluto, in quanto considera la stessa predestinazione di Cristo e in Lui come un aspetto della generale provvidenza del Dio creatore: cf. ib. III q. 24 a. 1.

15 Cf. K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 176.

16 Institutio Christianae Religionis, III, 21, 5: «Praedestinationem vocamus aeternum Dei decretum, quo apud se constitutum habuit quid de unoquoque homine fieri vellet. Non enim pari conditione creantur omnes: sed aliis vita aeterna, aliis damnatio aeterna praeordinantur. Itaque prout in alterutrum finem quisque conditus est, ita vel ad vitam, vel ad mortem praedestinatum dicimus». Cf. l’edizione italiana: G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, a cura di G. Tourn, 2 voll., Torino 1971, II, 1101 (cf. l’intero capitolo 21 del libro III: “L’elezione eterna con cui Dio ha predestinato gli uni alla salvezza e gli altri alla dannazione”: 1094ss). L’idea si trova analogamente ad esempio nel De aeterna Dei praedestinatione, del 1552: cf. Corpus Reformatorum 8,261s.

17 Cf. K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., su cui A. Moda, La dottrina dell’elezione divina in Karl Barth, o.c..

18 K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 332.

19 Ib., 245s.

20 Ib., 319.

21 Cf. ib., 268.

22 Ib., 451.

23ib., 246.

24 Ib., 305.

25 Ibid.

26 Ib., 355.

27 Cf. ib., 433.

28 Ib., 694.

29 Ib., 469.

30 Ib., 712s.

31 Cf. B. Forte, Cristologia e politica. Su Karl Barth, in Id., Cristologie del Novecento, Brescia 19852, 63-104.

32 Cf. la documentata analisi di A. Moda nell’Introduzione all’edizione italiana di K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 45ss. Lo stesso fondamento biblico dell’intera costruzione barthiana è stato contestato da alcuni, perché l’idea paolina corrispondente alla sostituzione vicaria è che Cristo è morto in nostro favore, e non - come continuamente sembra supporre Barth - al nostro posto: cf. ad esempio H. Bouillard, Karl Barth, II, Paris 1957, 117.

33 È ad esempio la critica di E. Brunner, Die christliche Lehre von Gott, Zürich 1946, 375-379.

34 K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 419.

35 Ib., 947s.

36 Ib., 817.