Vivere da 11 anni in Pakistan dà la possibilità di capire la situazione in cui versano i cristiani di quel paese ed analizzare le cause del terribile attentato alle due chiese di Lahore, avvenuto due domeniche fa. È proprio a Lahore che ha svolto la propria attività missionaria, don Miguel Ángel Ruiz, sacerdote salesiano, recentemente tornato a Roma, per insegnare diritto canonico. A colloquio con ZENIT, don Ruiz ha raccontato le difficoltà delle famiglie cristiane in Pakistan che, nonostante tutto, vanno avanti, e che, sfidando la paura del terrorismo, continuano a riempire le chiese.

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Com’è la situazione attuale della comunità cristiana in Pakistan?

Purtroppo, in generale, è una situazione assai negativa. Ne soffrono in particolare le donne e i giovani, due categorie molto importanti per il futuro della nostra società. Se è già di per sé negativo che in tribunale la testimonianza di una donna valga la metà di quella di un uomo, il fatto che quella donna sia cristiana, la svaluta ancora di più. Infatti, in Pakistan, un insulto ricorrente è “cagna cristiana”. Per quanto riguarda i giovani cristiani pakistani, l’ex arcivescovo di Lahore ha denunciato la loro frustrazione. Al punto che circa il 95% dei giovani desiderano lasciare il paese ma, se si parla dei cristiani, questa percentuale è praticamente del 100%.

Dopo i drammatici attentati delle ultime settimane, quali sono le speranze della chiesa in Pakistan?

“Speranza” è la parola chiave per il Pakistan di oggi. Se si guarda al presente, si trovano poche ragioni per sperare, eppure il fatto che tali ragioni non siano “esterne” o visibili, non vuol dire che la speranza non vi sia. La nostra Speranza è con la S maiuscola, non la vedo nei politici, né nelle strutture attuali, né nei grandi discorsi, ma in Gesù Cristo, in Dio Padre, nella presenza viva ed operante dello Spirito Santo in ogni cristiano del paese. Vedo quotidianamente questa Speranza nei cristiani che vanno avanti nonostante le difficoltà, nelle famiglie che fuggono di casa per il solo fatto di essere cristiane, nel giovane che è stato assassinato per aver rifiutato di convertirsi all’Islam, nelle madri che portano avanti le loro famiglie, insegnando ai figli ad amare Cristo, nei cristiani che il giorno dopo gli attentati, hanno riempito le chiese senza paura. In una parrocchia cattolica, uno di questi giorni, si sono incontrate più di 10mila persone. È questa la nostra speranza.

Sapendo che il futuro è imprevedibile, ma tenendo conto della tensione di questo periodo, che cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi in Pakistan?

Certo, il futuro è imprevedibile e la storia del Pakistan lo dimostra... Il presente, tuttavia, è chiaramente evidente: siamo discriminati per quello che effettivamente siamo, perdiamo missionari e congregazioni, c’è l’esodo dei cristiani in altre parti del paese, a seconda di dove la violenza si scatena, arresti indiscriminati di cristiani da parte della polizia. In definitiva, è una situazione che chiederà ai cristiani uno sforzo ancora più forte per poter sopravvivere in Pakistan.


Che ruolo stanno giocando la comunità internazionale e la Chiesa in questa situazione?

Innanzitutto devo dire che, negli ultimi sette anni, il Vaticano ci ha difeso costantemente e in modo assai coraggioso. Quello della diplomazia vaticana, specie in paesi come il Pakistan, non è affatto un lavoro semplice. Spesso è necessario andare al di là dei protocolli accademici, se si vuole veramente essere dei pastori e servire la Chiesa in cui ci formiamo. A livello internazionale si potrebbe fare molto di più. Lo stesso papa Francesco ha denunciato il tentativo di nascondere questa persecuzione. È vero che noi cristiani non sono gli unici perseguitati ma bisogna anche denunciare in modo forte e chiaro che siamo diventati un bersaglio dove prima non lo eravamo. Il recente doppio attentato suicida lo dimostra. Da adesso, i cristiani non sono più sicuri in nessuno luogo, poiché Youhanabad era il nostro sancta sanctorum, mentre ora non lo è più… Il Pakistan non vuole rimanere isolato ed è un luogo dove la comunità internazionale può svolgere un ruolo decisivo. All’Occidente interessa il destino dei cristiani o siamo soltanto un ostacolo nell’agenda di alcuni paesi? I cristiani saranno sempre ostacolati dagli intolleranti, con una violenza tanto fisica quanto ideologica. Inizierò a credere agli organismi internazionali solo quando inizieranno ad agire fattivamente, senza limitarsi a denunciare a parole.

Cosa si può fare per migliorare questa situazione di violenza e di persecuzione contro i cristiani?

Innanzitutto non dobbiamo dimenticare il Vangelo e chi siamo. Non possiamo rispondere alla violenza con la violenza e non possiamo in alcun modo giustificare azioni come il linciaggio di due musulmani da parte di alcuni cristiani inferociti a Youhanabad. Giustificare una tale reazione sarebbe come dimenticare il messaggio che oggi il mondo ha bisogno di umanità e permettere una spirale di reazioni contro di noi. Dobbiamo denunciare questa situazione senza paura. È necessario utilizzare tutti i mezzi pacifici a nostra disposizione per continuare ad aiutare i cristiani in Pakistan, attraverso donazioni che migliorino il loro status nel paese, coordinando i diversi gruppi di appoggio e difesa come la Caritas o la Commissione Giustizia e Pace. E poi bisogna pregare, pregare sempre, come ci ricorda la Scrittura. Infine si deve fare in modo che le forze dell’ordine evitino che la violenza si estenda, con il conseguente genocidio cristiano a cui stiamo assistendo.

Qual è il lavoro dei Salesiani in Pakistan?

In Pakistan, come ovunque nel mondo, i Salesiani sono accanto ai giovani e ai più bisognosi, evangelizzando sempre. Non facciamo distinzione tra i giovani cristiani o musulmani quando desiderano ricevere un’istruzione elementare o specializzata. Abbiamo bisogno che i giovani musulmani accettino la nostra identità di cristiani se vogliono far  parte della nostra struttura. Essendo la popolazione scolastica in maggioranza cristiana, non sarebbe accettabile adattarci ad altri credi o stili. E devo dire che non abbiamo mai avuto problemi con i giovani al centro. Inoltre, quando vengono giorni come quello di San Giovanni Bosco, sono gli stessi giovani musulmani che chiedono di stare con gli altri studenti durante la Messa. Non ci percepiscono mai come una minaccia, perché non facciamo proselitismo. Viviamo ciò che predichiamo e ciò che predichiamo non è pericoloso per loro. Per questo è curiosa la trasformazione che molti di loro avvertono stando con noi, al punto che il giorno della laurea, scoppiano a piangere all’idea di dover lasciare il centro. Lavoriamo per le vocazioni e a servizio della Chiesa locale in ogni modo possibile. In Pakistan non ridurremo i nostri sforzi a una semplice promozione sociale, perché la fede è vissuta in modo molto intenso: hanno bisogno di noi come persone consacrate e ci chiedono di vivere la nostra consacrazione in modo totale.