Nella sua consueta rubrica di liturgia, padre Edward McNamara LC, professore di Liturgia e Decano di Teologia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, risponde oggi ad una domanda di un lettore negli Stati Uniti.
Nella nostra parrocchia hanno chiesto di realizzare una recita della Passione, al posto della narrazione del Venerdì Santo, oppure come parte di essa. Il sacerdote potrà leggere la parte di Gesù ma ogni personaggio sarà rappresentato e di fatto recitato da un “attore”. È permesso questo di Venerdì Santo? Il nostro parroco non ha trovato niente per appoggiare o invece respingere l’idea e le sue fonti diocesane non erano specifiche nel permettere o vietare che abbia luogo. — J.Z., Columbia, South Carolina
La lettura della Passione, la Domenica delle Palme e il Venerdì Santo, permette senz’altro alcuni elementi drammatici, restando però ben lungi da una recitazione vera e propria. I lettori o cantori mantengono la tradizionale sobrietà del rito, evitando espressioni facciali e gesti. La Lettera circolare Paschalis sollemnitatis (1988) della Congregazione per il Culto Divino circa la preparazione e celebrazione delle feste pasqualidice:
“64. Si rispetti religiosamente e fedelmente la struttura dell’azione liturgica della passione del Signore (liturgia della parola, adorazione della croce e santa comunione), che proviene dall’antica tradizione della chiesa. A nessuno è lecito apportarvi cambiamenti di proprio arbitrio.
“66. Le letture siano proclamate integralmente. Il salmo responsoriale e il canto al Vangelo vengono eseguiti nel modo consueto. La storia della passione del Signore secondo Giovanni si canta o si legge come nella domenica precedente (cfr. n. 33). Terminata la storia della passione, si faccia l’omelia. Alla fine di essa i fedeli possono essere invitati a sostare per breve tempo in meditazione”.
Il sopracitato paragrafo n. 33 descrive la lettura come segue:
“33. La storia della passione riveste particolare solennità. Si provveda affinché sia cantata o letta secondo il modo tradizionale, cioè da tre persone che rivestono la parte di Cristo, dello storico e del popolo. La passione viene cantata o letta dai diaconi o dai sacerdoti o, in loro mancanza, dai lettori; nel qual caso la parte di Cristo deve essere riservata al sacerdote.
La proclamazione della passione si fa senza candelieri, senza incenso, senza il saluto del popolo e senza segnare il libro; solo i diaconi domandano la benedizione del sacerdote, come le altre volte prima del Vangelo”.
Queste letture possono dunque essere fatte, usando tre lettori o cantori, ognuno dei quali interpreta la parte di specifici personaggi. Un lettore ha il ruolo di narratore, un altro, di norma il sacerdote, pronuncia le parole del Nostro Signore, e infine un altro tutti i restanti personaggi. Il coro, o anche l’assemblea, può fare la parte della folla o quando più personaggi parlano all’unisono.
L’effetto “drammatico” e spirituale sull’assemblea nel momento in cui loro stessi, e non semplicemente un lettore, gridano “crocifiggilo!”, può essere particolarmente commovente e far emergere più chiaramente la responsabilità della peccaminosità di ognuno nella Passione del Nostro Signore.
In Vaticano, da ormai molti anni, la Passione nella Domenica delle Palme è stata cantata in italiano, da tre diaconi e un coro. I diaconi mantengono un tono sobrio apportando solo leggere varianti per ogni personaggio. Il coro canta in polifonia le parti della folla.
Il Venerdì Santo viene seguita la stessa procedura, ma utilizzando i tradizionali canti in latino mentre il coro della Cappella Sistina esegue le polifonie solenni. In entrambi i casi la Passione dura circa 50 minuti.
Questo sistema di divisione della lettura in parti è anche talvolta permesso nella Messe per i bambini, se questo facilita la comprensione (cfr. n. 47 del Direttorio della Messa con i Fanciulli).
Tuttavia, questo è ben lungi dall’essere una rappresentazione della Passione, la quale avrebbe un effetto completamente opposto a quello desiderato dai libri liturgici. L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) si sofferma su questo tema al punto n. 38 riguardo “Il modo di proclamare i vari testi”:
“38. Nei testi che devono essere pronunziati a voce alta e chiara dal sacerdote, dal diacono, dal lettore o da tutti, la voce deve corrispondere al genere del testo, secondo che si tratti di una lettura, di un’orazione, di una monizione, di un’acclamazione, di un canto; deve anche corrispondere alla forma di celebrazione e alla solennità della riunione liturgica. Inoltre si tenga conto delle caratteristiche delle diverse lingue e della cultura specifica di ogni popolo.
“Nelle rubriche e nelle norme che seguono, le parole «dire» oppure «proclamare» devono essere intese in riferimento sia al canto che alla recita, tenuto conto dei principi sopra esposti”.
Dunque il testo si riferisce soprattutto al tono di voce e non fa alcun cenno all’accompagnamento della lettura con espressioni facciali o gesti. Questo sarebbe conforme con la tradizionale sobrietà del rito romano e con la natura ministeriale di tali servizi quali la lettura.
Io credo che il criterio fondamentale sia quello di servire la Parola di Dio. La missione del lettore è quella di rivelare e proclamare il senso del divino messaggio al meglio della propria abilità, evitando di far sì che l’attenzione si indirizzi alla persona che fa la lettura e al suo abbigliamento o atteggiamento.
C’è anche, forse, un certo pericolo che il lettore dia la propria interpretazione delle emozioni contenute nel passaggio, invece di lasciar che le parole di Dio parlino a ogni membro dell’assemblea, dritte al cuore.
Quindi, è raccomandabile variare un minimo l’intonazione per chiarire il senso del testo, per esempio per distinguere una domanda da un monito o un grido di misericordia dall’atto di concederla.
L’uso di un recto tono stretto o con tono affettato per ogni passaggio è un disservizio nei confronti della Parola di Dio e dell’assemblea. Ma ogni minima traccia di recitazione, che sia tramite espressioni facciali, gesti, o cambi d’intonazione e di voce a seconda del personaggio, andrebbe evitata, in quanto tenderebbe a dirottare l’attenzione dal testo al lettore.
I tradizionali toni latini per cantare le letture possono servire da modello per la lettura dei testi sacri o addirittura per creare nuovi toni per il canto in vernacolo delle Scritture, come è già stato fatto, con gran successo, in alcune lingue.
Cantare i testi, per lo meno nelle occasioni solenni, ci ricorda che questo non è un testo qualsiasi, ma la Parola di Dio rivolta proprio a noi. Inoltre fa concentrare l’attenzione sulle parole stesse.
Nel 2005 un lettore offrì il seguente prezioso consiglio, basato sull’esperienza, che io credo valga la pena ripresentare:
“Quando insegno ai lettori e ai seminaristi, ho trovato utile dir loro di immaginare di essere in radio, piuttosto che in TV. Questo li fa riflettere su come usare al meglio la loro voce per proclamare la parola del Signore, senza venir distratti dallo sguardo verso la comunità, espressioni del viso, gesti, etc. Questo approccio permette al lettore di tener conto degli ascoltatori, rendendo più chiaro possibile il senso del testo a loro presentato, quando Dio parla attraverso le loro labbra. Consente anche di realizzare che la ‘parola parlata’ che pronunciano è Parola di Dio viva, e che questa è la cosa più importante. Allontana anche la tentazione di ‘drammatizzare’ il testo”.
[Traduzione dall’inglese a cura di Maria Irene De Maeyer]
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I lettori possono inviare domande all’indiri
zzo liturgia.zenit@zenit.org. Si chiede gentilmente di menzionare la parola “Liturgia” nel campo dell’oggetto. Il testo dovrebbe includere le iniziali, il nome della città e stato, provincia o nazione. Padre McNamara potrà rispondere solo ad una piccola selezione delle numerosissime domande che ci pervengono.