Non accennano ad esaurirsi le testimonianze a favore dell’opera della Chiesa durante la persecuzione ebraica perpetrata dal regime nazionalsocialista negli anni della Seconda Guerra Mondiale.
L’ultima in ordine di tempo riguarda la figura di Hermine Speier (1898-1989), l’archeologa ebrea tedesca che in un contesto sociale difficilissimo – che la vedeva emarginata sia in quanto donna che in quanto ebrea – riuscì, nonostante tutto, a mantenere prima la propria indipendenza professionale e poi ad avere salva la vita proprio grazie alla Santa Sede e ai Pontefici che la guidarono in quegli anni.
Una storia incredibile, poco nota ai più, raccontata ora per il grande pubblico dalla giornalista Gudrun Sailer in un volume in uscita per le edizioni Aschendorff di Münster (cfr. G. Sailer, Monsignorina. Die deutsche Jüdin Hermine Speier im Vatikan [Monsignorina. L’ebrea tedesca Hermine Speier in Vaticano], Pp. 384, Euro 19,80).
Nativa di Francoforte e allieva del grande Ludwig Curtius (1874-1954) all’università di Heidelberg, in giovinezza la Speier si avvicina ai circoli letterari del poeta Stefan George (1868-1933) dando prova già a suo tempo di una curiosità e di una vivacità intellettuale assolutamente fuori dal comune.
Più tardi, dopo il conseguimento della laurea in archeologia e i primi lavori a Königsberg, si trasferisce in Italia, dove viene assunta dal Deutsche Archäologische Institut. La presa del potere da parte di Adolf Hitler, però, anche a tanti chilometri di distanza, finirà per sconvolgere i piani della sua vita: già nel 1934, essendo ebrea, perde il lavoro e si trova a dover ricominciare tutto da capo in una terra straniera. D’altra parte in Germania non può tornare, perché in Patria per quelli col suo sangue non c’è più posto.
È allora che accade l’incredibile: grazie all’intermediazione di Curtius – nel frattempo anch’egli trasferitosi a Roma – viene presentata all’allora direttore dei Musei Vaticani, Bartolomeo Nogara e, con l’assenso di Papa Pio XI, trova riparo in Vaticano e assunta al servizio diretto dei musei papali nella fototeca.
Che sia proprio un’ebrea prendersi cura della più grande collezione di tesori artistici della Chiesa sarebbe una notizia che da sola farebbe piazza pulita di parecchi luoghi comuni – dal maschilismo all’antigiudaismo – che pure allora vengono riversati dai mass-media di mezzo mondo sul vertice istituzionale della Chiesa, ma la notizia non trapelerà mai, in primis per tutelare la sicurezza della stessa Speier.
Dopo Pio XI, quando con le leggi razziali del fascismo (1938) la situazione diventerà piuttosto critica anche in Italia, per uno di quei paradossi della storia recente, sarà proprio Pio XII – il Papa a cui solitamente vengono imputati i maggiori silenzi sulla persecuzione ebraica – a confermare intatta la fiducia della Chiesa vero l’operato della Speier, salvandole di fatto la vita, mentre lei fisicamente riparerà presso la comunità di monache benedettine delle catacombe di Priscilla.
Tutto questo, oggi, alla mentalità comune, dice poco ma, come argomenta l’autobiografia della Sailer, assumersi una responsabilità del genere nell’Europa degli anni Trenta non era facile: fino ad allora in Vaticano avevano certamente lavorato diverse donne ma mai una straniera. La Speier fu così la prima donna straniera, oltre che ebrea, a lavorare sotto la cupola di San Pietro grazie all’interessamento e al supporto diretto di due Papi solitamente descritti dai manuali storici come tutt’altro che moderni: Papa Ratti e Papa Pacelli.
L’altro dato poco noto è che – se la vicenda della Speier è esemplare per tutti questi motivi – essa non fu l’unica di quegli anni. Nell’epoca di Pio XI infatti, la resistenza della Santa Sede alle ideologie totalitarie, oltre ai documenti espliciti (come l’enciclica Mit Brennender Sorge) si attuò proprio con una singolare “strategia di impiego professionale” grazie alla quale trovarono salvezza non meno di “due o tre dozzine” di studiosi: accademici, intellettuali e ricercatori di vario tipo accolti in Vaticano con le tipologie di collaborazione più diverse, tra questi diversi “non ariani” come pure “personaggi accusati di comunismo”.
L’espressione tipica utilizzata per giustificare questi rapporti nei documenti ufficiali era: “collaboratore scientifico” (“wissenschaftliche Mitarbeiter”), perlopiù svolgevano la loro attività nella Biblioteca Vaticana e tutti venivano comunque dotati di un documento d’identità vaticano che li avrebbe tutelati nel caso di fermo o arresto delle autorità italiane. Più tardi, negli anni della guerra – stando agli ultimi documenti – gli ebrei salvati solo a Roma dall’azione della Chiesa perché ospitati in conventi, case religiose o parrocchie, arriveranno a oltre 5000 mentre presso il Campo Santo Teutonico, direttamente all’interno del Vaticano, troveranno rifugio un’altra cinquantina di persone comprese diverse famiglie – ebree e non – con i loro bambini.
Tornando alla Speier, la storia ebbe un lieto fine: non solo infatti si salvò, ma dopo undici anni in Italia si convertì al cattolicesimo ricevendo il battesimo, ormai quasi 41enne. Una scelta sincera e tutt’altro che facile da comprendere, soprattutto per la sua famiglia di origine, da cui tuttavia non recedette mai, diventando anzi a sua volta una testimone convinta.
Lavorò ai Musei Vaticani fino al 1967, l’anno in cui raggiunse la pensione, rifiutando deliberatamente – per gratitudine a quella Chiesa che di fatto l’aveva salvata – un’offerta professionale ritagliatale su misura presso l’Istituto Archeologico tedesco, dove avrebbe guadagnato almeno tre volte tanto: “Credo che quando si diventa, in un modo peraltro eccezionale come il mio, una ‘serva Sancti Petri’ [‘una persona al servizio del Papa’, in latino nel testo], non si possa andare via”.